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Amore & Fede (Nell’incanto del dopoguerra)

24.07.2017, Il racconto di Antonio Cella (da “Fuori dalla Rete” – Giugno 2017, Anno XI, n.3)

cella-antonioQuando Maria gli apparve, Nicola sfogliava il suo passato godendosi i tuffi delle ranocchie nelle diafane acque della “pischera” di contrada Crisci, che conserva tuttora la vita di terreni argillosi dal frutto incostante. Poggiava in testa un enorme sacco di farina di grano, che le incipriava gli omeri e il petto tempestoso.

<<Mi aiuti a deporre il sacco sul ciglio della fontana?>>

Il fascino selvaggio di quella donna, lo colpì con la forza di mille dardi che gli intorbidirono la mente. E un fluido magnetico, gravido di desiderio, serpeggiò negli occhi di entrambi. Se, per magia, avessero potuto farlo, si sarebbero fusi, sull’istante, in un tutto unico. Tanto, si avvertiva nei battiti convulsi dei loro giovani corpi.

Poi il cielo si oscurò. E i segni di addio delle loro mani, restarono sospesi nell’aria gelida, per fermare il momento di quell’incontro e tenere vivo il desiderio che cingeva il loro pensiero, senza mai soggiacere alla rinuncia, alla resa.

Era il giorno di carnevale, quando si convinsero a vincere ogni resistenza.

Era un carnevale scialbo, malaticcio, svuotato dell’antica vitalità. L’emigrazione della migliore gioventù verso lidi lontani, aveva serrato il sipario sul palcoscenico dell’allegria. Solo qualche studentello imberbe si sforzava di mettere insieme i resti di quella folata di primavera fuggiasca, per festeggiare, nel “liscio”, il ricordo delle bizzarrie paterne, che li relegava, solinghi, nelle culle di veli di pannocchia, e nell’ormai atavica, lamentosa, rappresentazione di fiabe, streghe e gnomi, vittime della immaginifica malvagità del lupo, che la fantasia dell’uomo aveva edificato a simbolo della ferocia.

Un carnevale glaciale, anche dal punto di vista atmosferico. La pioggia scrosciava sui tetti cristallizzati dal gelo, e scivolava snella nei canali di zinco che, a perpendicolo, scendevano lungo le murate segnate di stagioni, per frangersi nella sonante ghiaia accumulata, a nodi, nei cunicoli fognari.

La montagna taceva. Assisteva, passiva, dalla cima del Piscaccu l’abbandono galoppante, irrefrenabile, dall’humus materno di giovani che un tempo, non tanto remoto, le facevano vibrare di vita le chiome dei pini, i rami dei faggi, le annosità delle querce? Dov’erano le luci dalla cromatica velatura, che le carezzavano le coste e la vestivano a festa ogni sera di più? Dov’erano le maschere inghirlandate da intrecci di agli e filari di affumicate salsicce, che la facevano ridere della golosità dei gatti? E dov’era finito quel murmure sommesso, che la fiammella nera vitalizzava nella geometrica tavolata dei più, dove soltanto sospiri di cani, ruspar di galline del nocchiero appiedato e lo scrutar di lucertole tra le pietre tombali, accasate ai piè della superba mole, testimoniavano la continuità della vita?

Pioveva e, nel contempo, soleggiava. La primavera, tuttavia, aleggiava, pungendo i sensi a disfarsi della letarghia invernale, invitandoli a raccogliere con animo carnale le generosità della vita.

Nicola e Maria sgusciarono silenti l’un nelle braccia dell’altra, trascinandosi in un solo corpo nei marosi della libido, in una casupola opacizzata in una livida torre di nebbia, che occultava ogni cosa. Lei, rincantucciata in un angolo della stanza, accanto al comodino di noce,  scrutava il letto che invitava al peccato. Lui, preso dalla sua avvenenza,  le baciava il collo, gli occhi, il ventre, e poi l’arrivo della languida melodia che sublimava l’idillio, che impregnava i madidi corpi avviluppandoli in un crescendo di archi armoniosi, che scivolava dal soffitto, dalle pareti e dalle labbra infuocate di una donna in amore.

Un attimo di astrazione totale in un paradiso posticcio, isolati dal resto del mondo e dai rumori della guerra che, in lontananza, ancora seminava terrore e pianto di vittime innocenti.

Quando Martin Lutero contestò alla Dimora di Pietro l’ignobile vendita delle indulgenze, che nel secolo XVI fecero del Purgatorio una colonia penale facoltativa, ebbe inizio anche la politicizzazione del pensiero religioso e la caduta immediata dell’entusiasmo cristiano genuino, primitivo.

Finanche il clero più fedele si liberò di quel canone claustrale, che il tarlo luterano aveva castrato, per tuffarsi nella “massa” ed operare con disinvoltura in ogni campo del pensiero umano, debordando i rigidi canoni ecclesiali. Né riuscì, come sappiamo, la Controriforma a mettere ordine nei costumi e nella coscienza del clero, ormai lontano dalla sua missione spirituale.

Siamo alla genesi dei preti del dissenso, dei preti tuttofare, dei preti d’assalto, che fecero della religione una libera professione da cui ricavare, possibilmente, quei mezzi che consentissero loro il raggiungimento di fini non sempre trasparenti.

Don Candido, era uno di questi.

Si era formato sotto le chiavi di Pio XII e, pur avendo subito l’influenza benefica di “Giovanni il buono”, che nella semplicità ricucì i lembi della Chiesa, seppe mantenere sotto l’unico talare una promiscuità di “sé stesso” che sguinzagliava, all’occorrenza, in “commando” per missioni d’ogni ordine umano.

Un prete straordinario: megaprete, miniprete, zeroprete.

Quando si è quarantenni, e il bell’aspetto fisico consente, al di là del narcisismo, la contemplazione del profilo plastico dopo la rasatura mattutina, anche un prete non può fare a meno di sottrarsi al richiamo di pallide creature, vittime della penuria dell’uomo.

Sul principio, Lui, si limitava a mungere i peccatucci innocui, i dispetti e le bestemmie. Setacciava le confessioni nel rettangolo di lamiera forata del confessionale con spirito asettico, incontaminato, asessuato. Si manteneva, insomma, lontano dai gemiti della carne, che dalla grata bruna gli si offriva tremula, irrorata del vaporoso alito del desiderio.

Scoprì, poi, con molto ritardo, la sua vera vocazione. E abbatté grate e confessionali.

Cosa fare per alleviare le pene?

Lui assolveva il peccato, ma non frenava il piacere di ricommetterlo. Era, la sua, una missione infame che, nel tempo, lo condusse all’assoluzione di Adamo.

Non poteva curare le anime, astraendo dalla scorza delle stesse!

Ad ogni movenza sconcia, riconducibile al sesso, lui adduceva una serie di considerazioni “filosofiche”, impegnate e coscienziose, sempre “pro domo sua”, che l’accompagnavano durante le numerose crociate.

Elaborazioni mentali del tipo:  

“Un corpo gravido di desiderio non può non inficiare la corretta gestione della coscienza. Un disordine nel campo sessuale potrebbe reagire negativamente sulla sensibilità dell’anima. Ciò sarebbe cosa grave, soprattutto per un ministro di Dio”.

E, inoltre:

“Sarebbe altrettanto grave e imperdonabile isolare la sofferenza sessuale nella nullificazione del sesso: ne soffrirebbero, oltremodo, l’esistenza spirituale e la totalità del tessuto della vita”.

E, ancora:

“Corpo ed anima, sesso e amore, vivono insieme e, all’unisono, producono una serie di azioni e reazioni; sono espressione di una medesima realtà; sono unità inseparabili e intercomunicanti: l’una conduce all’altra. Sono tensioni vivificanti volute dall’Onnipotente”.

Dopo il rinsavimento, questi princìpi, queste regole personalizzate, l’accompagnavano ovunque: nei casolari, nei retrobottega, nei teneri letti vedovili e nei posti in cui la cura delle anime saziava i corpi.

Fu sempre fiero, Don Candido, della sua missione.

E l’unità della Chiesa di Pietro nel circondario della sua diocesi, grazie ad essa, non evidenziava neppure l’ombra di una scollatura.

                                                                                                       

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