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Brutta

08.12.2013, La poesia di Pasquale Sturchio

Brutta

*****

Sei bellissima!

Prima del tuo apparire

ti annuso…

ti respiro!

Al tuo materializzarti

ti ammiro…

ti adoro!

Calamitato,

come dal fiore l’ape,

dalla grazia selvaggia…

della tua femminilità!

dall’ aroma muliebre…

della tua carnalità!

Il silente sorriso…

dei tuoi occhi!

il diafano candore…

delle tue guance!

La cignea delicatezza…

del tuo collo!

Le timide esplodenti …

tue mammelle!

Di vertigini pregni…

i tuoi glutei!

la tua Venerea…

malinconia!

(Vulcanico orgasmo…!)

                                                                                                       

1 Commento »

  • redazione scrive:

    Commento di Giuseppe Marano:

    “Poesia “rischiosa” quella di Sturchio, in senso pregnante anche per chi la legge, che in sè conserva ancora il ricordo o il guizzo dell’antica fiamma che ancora non si spegne, anzi con gli anni acquista esca e si fa più bruciante. Come quello (=ricordo-amore) che divampa improvviso in Didone che si confessa sconfitta dal nuovo implacabile amore, alla sorella Anna : “Riconosco le vestigia, i segni dell’antica fiamma!”. Scoperta definitiva totalizzante condanna di fronte alla quale non c’è nulla da fare! E’ la poesia che esprime il “candore elementare” della naturalità, della esplosività di un’eruzione vulcanica che non si può controllare, ma, se si penetra a fondo rivela ad un tempo la “gentilezza” dell’improvviso frulllo d’un passero, il bombire del calabrone, lo sbocciare d’una gemma ad avviluppare in invisibile amplesso la luce, ad aspirare avidamente il vivificante calore. L’innocenza della naturalità, senza i veli, senza l’orpello finzione diaframma della parola quella cui anela la poesia di Sturchio, che invoca metafisicamente una condizione di prenatalità e si chiede del perchè dalla condanna alla sofferenza di venire al mondo per subire l’atroce supplizio dell’amore diuturno che non si può placare! Perchè le immagini più seducenti sono ingannevoli fuorvianti stravolgenti come il canto irresistibile delle Sirene che non si fanno toccare, ma ti fanno precipitare perdendoti nell’abisso dell’amore inappagato immedicabile inappagabile. E questa è la scintilla perenne sempre vivida che alimenta la poesia del Nostro: una nota dolente fedelmente immota nel tempo e nello spazio, l’amore come strazio imposto a chi ama veramente con tutto il sinolo di sè: anima e corpo. Difficile, raro, quasi impossibile il verificarsi miracoloso di questa armonia, di questa sintesi sinolica, perchè l’amore è vissuto in modo prevalentemente scompensato, da una parte o dall’altra, quasi mai nella sua unità psicofisica: …per lo più si presenta dimidiato in una dicotomia: amor sacro e amor profano, amore platonico pura esaltazione e sublimazione dello spirito, ed amore passionale gravato e gravante di carnalità…Quella di Sturchio sull’amore è piuttosto una dimensione pre-poetica, pre-natale, investe la condizione connaturale o coestensiva, quasi una condanna alla caduta nel tempo! La sua è una presensibilità della poesia in una con quella dell’amore in una temporalità aurorale che assorbe diluisce stempera la materialità dell’esistere. L’epifania della donna è trasfigurata in sensazioni olfattive che si sublimano in spirituali: “…ti annuso” diventa “ti respiro”. Certo, la femminilità si impone con la potenza abbacinante e bruciante d’un’eruzione lavica, ma si dissolve quasi in un sospiro catartico: il “ti adoro” che è un punto di arrivo, è anticipato come l’ “alfa” dell’esistere, quasi il poeta volesse sublimare ai propri occhi la sconfitta inesorabile del magnifico corpo che non si fa abbracciare ma sfugge quasi dispettoso e compiaciuto di lasciarti un vuoto dolore, o un vuoto di dolore: è un’ape disperatamente attratta dalla irresistibile fragranza di un fiore irraggiungibile! Il supplizio di Tantalo condannato alla sete eterna inesorabile, e a voler farsi perdonare da se stesso la propria sconfitta…questa la lacerante ferita aperta che porta il messaggio poetico. La carnalità si ingentilisce e rarefa in “aroma muliebre”, a voler dire che dall’inesausto desiderio e naturale richiesta d’amore, la vita dispettosa, il fato ti concede solo un aroma: cioè per farti soffrire di più, ti fa sentire appena l’ “addòre”, suprema condanna al supplizio. Ed è qui che poi erompe selvaggio imperioso perentorio il grido disperato rabbioso e devastante insieme che conclude il carme a sigillo della condizione del vivere come condanna alla sofferenza perenne: “la tua Venerea malinconia! (Vulcanico orgasmo…!)”

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