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Campania, se il ciclo della spazzatura dà lavoro al doppio delle persone

29.01.2011, Il Corriere della Sera (di Federico Fubini)

Il welfare della nettezza urbana. Il tir fa incassare al proprietario 550mila euro l’anno, al conducente 24mila: redditività che supera anche Apple

L’impianto di Tufino, nell’agro Nolano, sorge lungo un’enorme collina divelta. Le escavatrici della camorra hanno disegnato una mutilazione nel panorama, una di quelle cave che da anni alimentano l’edilizia e creano discariche illegali – lucrosamente affittabili – per i rifiuti di Napoli. Ora la più recente immondizia prodotta dalla città staziona in trenta camion da trenta tonnellate l’uno, a 1.500 euro a carico per una giornata di servizio, davanti ai cancelli dell’impianto dove verranno trattati. Siamo nel primo pomeriggio, ma i camionisti pagati otto euro l’ora se ne sono andati per non passare la notte in fila. Sanno che non entreranno finché la precedente spazzatura filtrata nell’impianto, per l’esattezza la parte che non brucia, non troverà una discarica in Puglia, Sicilia, Toscana o Emilia-Romagna disposta ad accoglierla. In Campania non ce ne sono più. O non ancora. Ma più quei rifiuti triturati devono andare lontano, più costano al contribuente di Napoli (fino 150 euro la tonnellata per la «solidarietà» delle altre regioni), più danno lavoro ai camionisti campani e più arricchiscono i proprietari dei mezzi. Per questi ultimi meno discariche a norma di legge si aprono in Campania, meglio è. Meno si fa raccolta differenziata, che semplifica la filiera, richiede meno addetti e fa risparmiare i cittadini, più si moltiplicano gli affari: qualche tempo fa la Procura di Santa Maria Capua Vetere fece pedinare i sacchetti dei rifiuti organici disciplinatamente separati dalla cittadinanza e si accorse che gli uomini sugli automezzi li buttavano nel mucchio con tutto il resto non appena si allontanavano.

L’effetto «consorzi»

Di recente poi le decine e decine di ditte di trasporti privati si sono aggregate in tre o quattro «consorzi», in modo da impedire che qualcuno abbia l’idea di provare un po’ di concorrenza al ribasso sulle tariffe: un tir da rifiuti può far incassare al proprietario 550 mila euro l’anno, di cui circa 24 mila da dare al conducente e non molto di più in gasolio. Una redditività superiore a quella di Apple o Goldman Sachs. Per pochi fortunati, è quella che la Corte dei conti definisce una «rendita di posizione ingiustificata». Per migliaia di camionisti sono pur sempre dei posti di lavoro. Ma per i contribuenti di Napoli e dintorni è un onere che la magistratura contabile stima in 48 milioni di euro l’anno di spesa evitabile se solo il sistema di smaltimento fosse più efficiente e si aprissero moderne discariche nelle vicinanze. Resta da capire chi siano i beneficiari ultimi di questo segmento della filiera. Di fronte alla Corte di giustizia dell’Ue, 10 mesi fa, l’avvocato dello Stato difese il governo sul caso-rifiuti adducendo l’argomento della criminalità organizzata come «causa di forza maggiore» per spiegare il disastro (obiezione respinta e Italia condannata: la camorra non è un terremoto o uno tsunami, osservarono i giudici a Lussemburgo). Nella sua ultima relazione al Parlamento, la Procura di Santa Maria Capua Vetere cita i trasporti come il settore più infiltrato dalla malavita. E Rosaria Capacchione sul Mattino ha mostrato che varie ditte nel trasporto rifiuti urbani, arruolate dal commissariato per l’emergenza, sono legate al clan Zagaria.

La moltiplicazione degli addetti

Ma c’è una lezione più vasta, perché questa in realtà è la terra del welfare-spazzatura. La morale campana è che un ciclo della nettezza urbana che non funziona dà da vivere al doppio delle persone rispetto a un sistema efficiente. In media italiana gli addetti del settore sono 1,7 ogni mille abitanti, in Campania almeno tre (senza contare, ovviamente, l’ipertrofico trasporto su gomma). E non è tanto il fatto che allo Stir di Tufino, «Stabilimento di tritovagliatura e imballaggio rifiuti» di proprietà della società provinciale Sapna lavorano per esempio in 78 (più il gabbiotto stipato di guardiani, i giardinieri e la ditta di pulizia dei macchinari), mentre un impianto simile a Montespertoli ha 11 addetti e non uno di più. Né pesa troppo il fatto che nell’altro impianto Stir di Giugliano, avviato a suo tempo dalla Fibe-Impregilo, a un metalmeccanico di secondo livello vengono riconosciuti 4 mila euro netti al mese per qualche ragione legata alla convivenza con il «territorio». Non sono questi i dettagli importanti, perché quel che conta è l’equilibrio generale. È il suo peso che rende il sistema così difficile da industrializzare al servizio del cittadino. Il principio su cui tutto si fonda è semplice: peggio va l’igiene urbana, meglio va per coloro che ne possono in qualche modo beneficiare finanziariamente con nuovi contratti a spese del contribuente. Ci sono certo le società di servizi in subappalto che lasciano i sacchetti per strada – scrive la Procura di Santa Maria Capua Vetere – nei Comuni le cui giunte non pagano presto e bene. E ci sono le «isole ecologiche» (piazzole per i rifiuti organici) la cui costruzione in Campania costa 300 euro, mentre altrove si fanno con la metà. Che dire poi dei «centri di trasferenza», parcheggi di rifiuti ammassati in aie concesse in affitto dai privati, che non servirebbero se lo smaltimento semplicemente funzionasse. In genere, scrive la Corte dei conti, gli «oneri di produzione sovrastimati a prescindere dalle procedure di verifica» si riscontrano ovunque. Ma appunto c’è un dato più ampio, e riguarda l’occupazione. In Campania gli addetti diretti al settore sono 12 mila, quando una stima media sull’Italia direbbe che ne bastano al più settemila. A questi, è ovvio, vanno aggiunti 3.500 lavoratori socialmente utili che da dieci anni e per 600 euro netti al mese seguono un corso di formazione in raccolta differenziata (ovvero: come si prende un sacchetto colorato e lo si butta su un camion). Loro da dieci anni aspettano di passare all’azione, ma la lista delle tragiche bizzarrie potrebbe continuare per un pezzo. Eppure, più di tutto quel che sembra contare è appunto il risultato economico complessivo. Prendiamo il comune di Napoli, un campione più misurabile del fenomeno.

Il reddito e la spesa

Nell’ultima contabilità che si è chiusa, sul 2009, la spesa dedicata ai rifiuti urbani rappresenta una quota di tutto rispetto nell’economia cittadina. In raccolta e smaltimento vanno 210 milioni, poi la società municipalizzata Asia ne perde altri 20, per un fatturato pari al 12% del bilancio comunale. Secondo gli esperti basterebbero 600-700 addetti in tutto, in realtà ce ne sono 2.400 (più i 650 delle due società coadiuvanti Lavajet e Docks Lanterna). Alla fine il risultato è fin troppo prevedibile: a Napoli il reddito lordo per abitante non arriva ai 17 mila euro l’anno, eppure l’imposta comunale sulla nettezza urbana supera nettamente i 400 euro per abitazione, con aumenti in certi anni anche del 30%. A Pordenone il reddito per abitante è quasi il doppio e la Tarsu costa meno della metà. Ma lì non finanza un welfare distorto, imperniato sul principio del disastro ecologico. Una volta inclusi i costi per i rifiuti industriali, a una stima prudente l’intero settore a Napoli vale almeno il 2,5% del Pil dell’area comunale. Un’industria rilevante, se solo funzionasse. Invece è proprio la disfunzione che nutre il «welfare» pagato con la Tarsu e rende dunque l’intero sistema così difficile da cambiare. Non è solo incuria, se in cambio di tasse altissime i contribuenti ricevono sporcizia: fa parte dell’equilibrio del sistema.

Nuove discariche

E dire che basterebbe così poco, anche senza perdersi nei sacchetti multicolori della differenziata. In Olanda i cementifici si alimentano di rifiuti urbani combustibili per il 92% del fabbisogno, in Campania siamo a zero (e in Italia al 10%). Al nuovo termovalorizzatore di Napoli, se mai si farà, non serviranno costosi trasferimenti e trattamenti preliminari del «prodotto». E già un primo passo sarebbe quello di provare ad aprire discariche ben fatte e vicine, anche perché tra due anni tutte quelle esistenti in Italia saranno piene e il dramma dei rifiuti rischia di non essere più un’esclusiva campana. Per ora però si muovono passi diversi e più audaci. Di recente la A2A, la società lombarda alla quale la Protezione civile ha dato in gestione gli impianti-chiave di Napoli e dintorni, prova un’altra strada: esportare via nave rifiuti trattati all’enorme discarica vuota di Cadice, in Andalusia. L’affidamento (senza gara d’appalto, solo con una «selezione sul mercato») è andato alla Markab Consulting di un certo Francesco Cirrincione: inizierà portando 30 mila tonnellate per un contratto che può valere oltre 4 milioni e potrebbe crescere di molto in seguito. «Siamo un’azienda grossissima – spiega Cirrincione – abbiamo impianti in Austria e in Germania». A fine 2009, in base ai dati Cerved, Markab aveva un solo dipendente e lo ha pagato 33 mila euro lordi: per tanti nella filiera di questo raffinato welfare, veramente un’inezia.

                                                                                                       

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