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Dalle janare ai lupi mannari: mistero e paura nella tradizione irpina

10.07.2011, Articolo di Aniello Russo (da “Il Corriere” del 26.06.2011)

Numerosi i personaggi creati dalla fantasia popolare per addomesticare la dimensione dell’ignoto e il timore della morte, che sembrano strizzare l’occhio all’immagine del vampiro.

Dopo la pubblicazione del romanzo Il vampiro, la casa editrice irpina Keres, con sede a Mercogliano, ha dato alla luce un secondo volume, agile e avvincente: Vampiriana, un’antologia che comprende storie fantastiche di vampiri di autori italiani. Ho letto d’un fiato il testo che per me, conoscitore di tante storie popolari di paura, è stata una scoperta. Sì, proprio una scoperta; trovare Capuana e Salgari tra gli autori di storie vampiresche è stata una felice sorpresa. E in questi racconti non manca la suspense…“

Per la prima volta vengono raccolti in volume i racconti classici del vampiresco italiano, nati dalle penne di autori insospettabili, quali Emilio Salgari e Luigi Capuana, e da veterani del fantastico nazionale. Bambini vampiro, pipistrelli assetati di sangue, cacciatori di anime, spettri ematofagi, quadri diabolici, cadaveri incorrotti: in queste novelle, la cui pubblicazione è precedente alla prima edizione italiana del Dracula di Bram Stoker, si profila un vampiro nazionale alquanto differente dalla figura a cui ci hanno abituato il cinema e la letteratura anglosassone. Riscopriamo il vampiro in una delle sue molteplici incarnazioni, in un viaggio attraverso le pagine più oscure della nostra letteratura” (Antonio Daniele).

Per dare solo un’idea dello stile dei nostri autori, riporto un beve stralcio da uno dei racconti: “Io tremavo alla spettacolo di mia moglie Luisa che tendeva desolatamente le braccia verso la culla, mentre colui (il vampiro), chinato sul nostro bambino dormente, faceva qualcosa di terribile bocca con bocca, come se gli succhiasse la vita.”La pubblicazione di queste storie dimenticate è avvenuta grazie al coraggio e alla indubbia competenza di Antonio Daniele, curatore della casa editrice Keres. E la lettura di questi racconti, dovuti alla penna di scrittori colti, mi ha indotto a fare dei confronti con la tradizione delle storie popolari di paura, che io ho raccolto in Irpinia.

In ogni angolo del mondo, e in tutte le epoche l’uomo ha dato vita a una infinità di figure fantastiche, di personaggi dalla doppia natura, umana e soprannaturale. In Irpinia non c’è la tradizione del vampiro, in compenso sopravvive la memoria di numerosi personaggi, creati dalla fantasia popolare: oltre alle Malecose, che sono le anime dannate, la nostra tradizione raccontava storie che avevano come protagonisti personaggi quali: il Lupo Mannaro, la Janàra, lo Scazzamariello, lo Sdràgo, il Draòne, e ancora Grassamalo, Palommella, Calamorgia e così via fantasticando. Le storie di tutte questi creature fantastiche alludono all’atavico timore per le forze della natura, alla paura della morte. Però, il diverso e il misterioso non nasce solo come proiezione di paure e di angosce; queste storie rappresentano pure il tentativo di addomesticare la dimensione dell’ignoto, di renderlo familiare e, in ultimo, palesano l’aspirazione a conquistarsi la continuazione della vita oltre la stessa morte, una sorta di immortalità insomma. Il vampiro, creatura dei paesi del Nord, incarna una di queste aspirazioni all’immortalità; nella nostra Irpinia la janàra vive una vita intera in cerca della strada che la innalzi al cielo, in uno sforzo di imitare la trasfigurazione di Cristo.

La janàra

La creatura fantastica che maggiormente si avvicina al vampiro io credo che sia la janàra. Chi nasceva la notte di Natale, arrivato all’età di quindici anni, se maschio diventava lupo mannaro, se femmina janàra. E l’iniziazione della janàra avveniva nella notte tra il 23 e il 24 di giugno, la notte di San Giovanni Battista.Questa figura fantastica, che non va confusa con la strega del nord, quella della narrativa fiabistica, è il parto dell’immaginario collettivo di due province confinanti (l’Irpinia e il Sannio). Il convegno di tutte le janàre si teneva sotto il noce che si ergeva al confine dei due territori. Le ragazze quindicenni durante l’iniziazione imprimevano un bacio, in atto di totale sottomissione, tra le due natiche di un montone, che rappresentava Lucifero. La metamorfosi in janàra dura dalla mezzanotte all’alba. E particolarmente feroci questi esseri dalla doppia natura, umana e demoniaca, si mostrano durante la notte di San Giovanni: vanno a caccia di neonati per renderli storpi o per bruciarne i corpi e ricavarne un unguento che, spalmato sotto le ascelle, consente loro di spiccare il volo nella notte. Ma questo nutrirsi del sangue e della carne di un altro è rappresentato pure nel racconto di Morando (in Vampiriana, p. 27): “Le membra della fanciulla si facevano più grame e il suo corpicciuolo esile e macilento, mentre i colori del volto emigravano per passare su quelle del fratello: l’una vita moriva, l’altra si raddoppiava.”L’unguento magico, che trasformava le janàre in volatili, era ricavato, ripeto, dal grasso di un bambino appena nato (che rappresenta la forza della vita), mescolato con la fuliggine (che simboleggia le tenebre della morte). Rese così leggere, come le piume di un volatile, le janare prendevano a volare.

Ma l’effetto dell’unguento magico non era per sempre: la magia del volo terminava con le prime luci dell’alba. Molte janàre, dopo la partecipazione alla notte orgiastica del Sabba, nel gettarsi dalla cima del noce per spiccare il volo, finivano per schiantarsi al suolo. La mattina i loro corpi non si trovavano perché le altre streghe, loro comari, avevano già provveduto a seppellirle. Il sabato è il giorno del sabba. Dopo il banchetto a base di carne umana, le janàre si prendevano per mano e formavano un cerchio con le spalle volte al centro e ballavano girando in direzione opposta al corso del sole. Alla comparsa del montone seguiva l’orgia che durava fino al primo canto del gallo. Per esorcizzare il vampiro bastava armarsi di una croce; per scongiurare l’apparizione della janàra, invece, si ricorreva a una molteplicità di pratiche magiche. Ne ricorderò solo una: si metteva dietro la porta, un ramo di pino: con questo espediente si puntava a far perdere tempo alla janàra, la quale per poter entrare in casa d’altri doveva contare tutti gli aghi di pino. Con la luce del giorno lei poteva essere riconosciuta, e così si affrettava a tornare a casa, senza aver compiuto i suoi atti malvagi. L’evoluzione della janàra, che è una vicenda lunare, ripete la vicenda solare di Cristo. La janàra viene al mondo nella stessa notte in cui nasce Gesù. E come Cristo si trasfigura da uomo in essere soprannaturale (Dio), anch’essa si trasforma da essere umano in creatura soprannaturale (Demonio). Però, mentre Cristo riesce a liberarsi delle spoglie terrene e, risorgendo nella notte tra il sabato e la domenica di Pasqua, si leva in volo verso il cielo (trascendendo la natura umana), le janàre, dopo il sabba (che segna il degrado della sua natura di donna), nelle notti tra sabato e le domenica, tentano di spiccare il volo dalla cima del noce. Ma molte di esse si spiaccicano al suolo. Finisce così miseramente il loro gesto imitativo dell’ascensione di Cristo. Altrettanto caro costa al Vampiro il capriccio, caparbio ma contro natura, di abbattere le barriere della morte.

Il lupo mannaro

Nella tradizione più comune la metamorfosi in lupo mannaro di chi è nato la notte di Natale avviene nella notte di tutti i venerdì dell’anno, dal primo venerdì di marzo all’ultimo venerdì prima di Natale. La mentalità popolare era portata a ritenere un’offesa gravissima a Dio nascere nella stessa notte in cui era nato il suo Figliuolo: il malcapitato sarebbe stato condannato a vivere per tutta la vita con la doppia entità di uomo e di lupo. Il maledetto comincia questa sua trasformazione all’età di quindici anni, quando in lui finisce col prevalere la impurità della bestia sull’innocenza del cristiano. Egli ama attardarsi all’aperto nelle notti di luna piena. Col plenilunio comincia la trasformazione dell’uomo in lupo: lui avverte il momento, perché si diffonde in tutto il corpo una sensazione di calore tanto intensa che sente il bisogno immediato di strapparsi gli indumenti di dosso e di trovare refrigerio nell’acqua degli stagni o di rotolarsi nelle pozzanghere. Se durante la notte ti capita sfortunatamente di imbatterti in un lupo mannaro, per non essere sbranato, scappa verso un crocevia, che il lupo mannaro non osa oltrepassare per la sua forma che ricorda la croce di Cristo; proprio come il vampiro! Infine, esso diventa del tutto innocuo, se riesci con uno spillo o con un ago a pungerlo su una mano, in modo da provocare la fuoruscita di tre gocce di sangue. Col sangue se ne va via anche la bestia che è in lui. La credenza del lupo mannaro, legata alla diffusa attività della pastorizia in Irpinia, s’inserisce nell’ampia storia del rapporto tra uomo e lupo. Essa presenta due aspetti:1. un aspetto mitico del lupo totem, antenato di noi Irpini; 2. un aspetto rituale, che comprende tradizioni primitive, come l’iniziazione dei giovani Hirpini a cui si opponeva il lupo, come prova di paura da superare; questa fase è sopravvissuta nella doppia natura del lupo mannaro, che è uomo e lupo nello stesso tempo. Ma forse il lupo mannaro rinvia a un rito di esorcizzazione della morte. E la luna piena costituisce un fattore determinante della trasformazione dell’uomo in lupo, in quanto si accorda con l’avvicendarsi delle fasi lunari, che sono rappresentative del processo di morte e resurrezione.

Le anime dei defunti

Il ritorno periodico del vampiro ricorda quello delle anime dei morti sulla terra. Il loro ritorno in forma umana avviene in un tempo compreso tra il due di novembre e Carnevale. Nella notte tra l’uno e il due novembre, è possibile finanche vedere le anime dei morti. Basta riempire una catinella d’acqua, esporla sul davanzale della finestra, accendere ai lati due candele e attendere la mezzanotte. Al primo tocco della campana, nel fondo della catinella, al fioco lume dei due ceri, i morti sfilano in processione a uno a uno, vestiti di bianco e preceduti da un sacerdote; e si possono facilmente riconoscere pure i volti dei propri familiari che passano silenziosi sotto i nostri occhi. Ma la visione dura poco: all’ultimo tocco della campana le ombre dei defunti svaniscono. Queste sono le anime del Purgatorio, catalogati anche come spiriti benigni. L’immaginario collettivo distingue le anime dei trapassati anche in: a. anime beate. Esse rimangono sulla terra ancora per sei mesi, fino a che giungono le anime di altri morti per guidarla sulla strada che porta all’altro mondo. Queste anime e quelle purganti appaiono, sia nella realtà sia nella finzione del sogno, sempre in folla, in processione o in gruppi. Le anime dei dannati, invece, a prova della solitudine anche nella sofferenza, si presentano ai vivi sempre sole e disperate. b. anime dannate, cioè irrimediabilmente condannate alle pene dell’inferno, sono le anime di quanti hanno subito una morte violenta

                                                                                                       

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