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“FARE” accoglienza

14.04.2017, Articolo di Paola Gerola* (da “Fuori dalla Rete” – Aprile 2017, Anno XI, n.2)

Accoglienza-ai-migrantiNegli ultimi anni, anche a seguito dei recenti conflitti internazionali, i processi migratori verso l’occidente si sono intensificati in maniera esponenziale, in Italia, gli stranieri residenti sono solo l’8,2% della popolazione. Una delle percentuali più basse in Europa (Austria 13,2%, Irlanda 11,9%, Belgio 11,6%, Spagna 9,6%, Germania 9,3%, Inghilterra 8,4%), in Italia, nonostante il caso mediatico, l’aumento è stato solo dell’1,9%. un flusso decisivo per compensare la flessione delle nascite nostrane. Infatti per mantenere sostanzialmente inalterata la popolazione italiana dei 15-64enni nel prossimo decennio, dal momento che è prevista una diminuzione degli italiani, dal 2015 al 2025, di 1,8 milioni di unità, è necessario un aumento degli immigrati di circa 1,6 milioni di persone, con un flusso d’ingressi di 157 mila in media ogni anno.

In Campania, risultano regolarmente presenti circa 217.500 stranieri, con un incremento del 7% rispetto all’anno precedente ma, comunque, con un’incidenza solo del 4% sulla popolazione residente. I cittadini stranieri ospitati in provincia di Avellino sono il 6% degli arrivi in regione, infatti circa il 50% risiede nella provincia di Napoli, il 22% Salerno, il 19% Caserta e il 3% Benevento. Se osserviamo l’incidenza della popolazione straniera su quella autoctona è superiore nelle province di Caserta e Salerno (il 4,4%), segue Napoli (3,5%), Avellino (3%) e Benevento (2,5%).

Anche se i numeri sono un po’ noiosi, questi sono i dati necessari per capire quanto questa “invasione” è in realtà solo percepita, ma non reale.

Ma veniamo ora a capire e conoscere i sistemi di accoglienza in Italia.

Il sistema di accoglienza dei migranti in Italia è diviso tra strutture di prima e di seconda accoglienza.

La prima accoglienza: i cittadini stranieri entrati in modo irregolare in Italia sono accolti nei centri per l’immigrazione dove ricevono assistenza, vengono identificati e trattenuti in vista dell’espulsione oppure, nel caso di richiedenti protezione internazionale, per le procedure di accertamento dei relativi requisiti. Queste strutture si dividono in: centri di primo soccorso e accoglienza (Cpsa a Lampedusa, Cagliari, Otranto, Pozzallo), centri di accoglienza (Cda), centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) e centri di identificazione ed espulsione (Cie).

La prima accoglienza è gestita anche dalle prefetture locali che rispondono al ministero dell’Interno, e ne fanno parte gli hotspot e gli hub regionali con i così detti CAS.

La seconda accoglienza è formata dagli SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati). Qui entrano solo i richiedenti protezione internazionale, in attesa che la commissione territoriale competente – composta da quattro membri, di cui due del ministero degli Interni – valuti la loro domanda e decida se accettarla o meno. Gli SPRAR, a differenza degli hub regionali (CAS), dovrebbero garantire percorsi individuali di integrazione: si parla di corsi di italiano ma anche di altri progetti che favoriscano una qualche formazione professionale. Secondo la road map del ministero dell’Interno, la commissione territoriale dovrebbe decidere la sorte dei richiedenti asilo entro 180 giorni dalla loro richiesta. In realtà i tempi sono molto più lunghi e ci sono richiedenti protezione internazionale che attendono oltre un anno prima di ricevere la risposta dalla

Commissione territoriale competente. Tecnicamente il migrante racconta la sua storia davanti ad una commissione la quale valuta se esistono i requisiti per lo status di rifugiato oppure qualche altro tipo di permesso di soggiorno. Sono delle vere e proprie interrogazioni dove l’aspirante rifugiato deve preoccuparsi di procurare tutta la documentazione possibile per certificare la veridicità del suo racconto. Se ottiene un permesso di soggiorno il migrante esce automaticamente dallo SPRAR ma se ottiene un diniego, cosa molto probabile, può fare ricorso e quindi sarà affiancato da un avvocato e quindi riascoltato dalla commissione e i tempi si allungano e finché l’iter non finisce il richiedente è sempre ospite di una struttura Sprar.

Ma vediamo più nel dettaglio che cos’è uno SPRAR. Lo SPRAR è un sistema che esiste dal 2001 da quando il Ministero dell’Interno Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, l’Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI) e l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (UNHCR) siglarono un protocollo d’intesa per la realizzazione di un “Programma nazionale asilo”. Nasceva, così, il primo sistema pubblico per l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, diffuso su tutto il territorio italiano, con il coinvolgimento delle istituzioni centrali e locali dove i Comuni erano in prima fila con il coinvolgimento di tutte le figure della cooperazione sociale di un determinato territorio. Il sistema SPRAR ha funzionato e funziona ma negli ultimi anni l’immigrazione verso il nostro paese è aumentata per motivi legati a guerre e crisi economica e quindi sono nate operazioni come “Emergenza Nord-Africa” e dopo “Mare Nostrum” che nascono con gli stessi intenti dello SPRAR ma che viene gestita non più dai Comuni ma dalle Prefetture. Bisogna aggiungere che l’aumento dei migranti è stata un movimento lento e si percepiva già negli ultimi 6 anni ma la politica ha preferito chiudere gli occhi e gestire l’emergenza profughi in altro modo. Inoltre non tutti i migranti sono rifugiati, molti scappano da guerre oppure alla ricerca di una vita migliore. L’Italia politica ha sempre una memoria corta, ricordiamoci la guerra in Kosovo come è stata diversamente gestita dal nostro paese ma anche dall’Europa stessa e chiediamoci perché per la Siria non è avvenuto lo stesso.

Gli SPRAR sono progetti della durata di 3 anni presentati direttamente dai Comuni al Viminale, stiamo parlando quindi di un tassello fondamentale perché permetterebbe ai Comuni di gestire e non subire il fenomeno dell’immigrazione. Infatti, adottando questo modello di gestione, il Comune diventa capofila del progetto, soggetto decisionale e fruitore dei finanziamenti previsti, a differenza del modello “CAS”, con il quale i centri di accoglienza vengono imposti dalla Prefettura e gestiti da Enti privati senza alcun obbligo di assegnatario.

A livello territoriale gli enti locali, con il prezioso supporto delle realtà del terzo settore, garantiscono interventi di “accoglienza integrata” che superano la sola distribuzione di vitto e alloggio, prevedendo in modo complementare anche misure di informazione, accompagnamento, assistenza e orientamento, attraverso la costruzione di percorsi individuali di inserimento socio-economico. Gli SPRAR, quindi, sono strutture garantiscono dei servizi fondamentali; supporto psicologico, assistenza legale, integrazione, corsi di alfabetizzazione, tirocini lavorativi i quali sono funzionali per creare delle basi solide che permettano agli ospiti di reinserirsi nel tessuto sociale ed economico. La forza dei progetti SPRAR si trova nel monitoraggio economico e sociale di tutte le attività, le quali devono avere una motivazione solida per la realizzazione e devono essere rendicontate in maniera dettagliata. Questa supervisione nei minimi dettagli

invece viene un po’ a mancare negli altri progetti i quali rispondono ancora alla logica dell’emergenza.

Nei progetti SPRAR, infatti, c’è un vero e proprio manuale di rendicontazione con i capitoli di spesa relativi al progetto. Registro generale delle spese, prospetto analitico finale delle spese sostenute suddivise per codice; registro delle presenze dei beneficiari; dettaglio riepilogativo dei costi del personale subordinato o parasubordinato, sono solo alcuni dei documenti richiesti. L’ente capofila, solitamente il comune, deve monitorare e rendicontare al Ministero dell’interno secondo i criteri indicati nel manuale. Il Ministero a sua volta utilizza il Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo, gestito anche con fondi Europei e fondi dell’UNHCR. Non si scappa e non è possibile “nascondere” infatti, forse per questo si è creata “l’emergenza”.

Con i progetti SPRAR si può riformare il sistema di “FARE” accoglienza che deve essere fortemente basato sul concetto di autonomia che rifugge da logiche eccessivamente assistenziali e perciò debilitanti per il necessario percorso di attivazione individuale di cui ogni nuovo cittadino necessita. Le strutture utilizzate dovrebbero essere dei comuni: alloggi familiari condivisi in cui i gli ospiti possono creare e dare forma agli spazi di cui sentono il bisogno. Il numero molto basso di ospiti per unità immobiliare permette un maggiore radicamento sul territorio e favorisce il percorso di inserimento.

Bisogna però migliorare la qualità dei servizi attraverso meccanismi di trasparenza amministrativa e di monitoraggio efficaci come la clausola di salvaguardia che esclude che nei Comuni aderenti allo SPRAR siano attivate altre forme di accoglienza non concreta sui territori. Altro elemento fondamentale perché uno SPRAR funzioni e che venga applicato in centri piccoli (20 massimo 50 accolti) affinché la gestione sia efficiente, non è possibile riuscire a controllare 100-150 (addirittura 1000) persone, è normale che poi succedono incidenti e problemi. E’ auspicabile che ogni operatore si occupi di 5-6 migranti al massimo perché è necessario accompagnarli in un processo d’integrazione.

Infatti Lo SPRAR dovrebbe prendere in carico il migrante in tutte le sue attività. Il servizio sanitario, quindi controlli medici e vaccinazioni e scelta del medico di base, congiuntamente all’azienda sanitaria locale. I corsi d’italiano, il lavoro: si ascolta il migrante per conoscere la sua storia ma anche le sue attitudini lavorative e magari si prevedono corsi di formazione lavoro. E poi il sostegno psicologico, ricordiamoci che queste persone affrontano viaggi pieni di pericoli. E poi ci sono le famiglie e quindi bambini da iscrivere a scuola. Bisogna soprattutto rendere le persone capaci di camminare con le loro gambe e non essere visti come delle risorse economiche. L’obiettivo è quello di renderli autonomi, anche nelle piccole cose quotidiane. E’ vero, c’è sempre il pocket money settimanale, che generalmente loro inviano a casa, ma sarebbe opportuno dare loro anche i soldi previsti per il vitto: loro fanno la spesa e cucinano, inoltre con il cibo si possono creare momenti di integrazione piacevoli sia tra di loro di diverse nazionalità sia con gli operatori italiani.

L’ospite ha bisogno di essere accolto e insieme a lui iniziare un percorso che lo porta ad integrarsi in una nuova cultura. Sono tutte persone che si mettono in gioco, volenterose e soprattutto desiderose di “fare qualcosa”, infatti la cosa fondamentale è tenerle occupate perché la maggior parte di loro, soprattutto chi è stato prigioniero in Libia, ha

delle storie terribili alle spalle, e più sono occupati meno tempo hanno per pensarci, pensare distrugge l’anima…..

Insomma credo sia l’ora di smetterla di dare la colpa dei nostri problemi all’immigrato perché il desiderio dell’immigrato è di dare meno fastidio possibile. Esiste un’ignoranza dilagante e quindi ben venga l’integrazione perché conoscere allarga i confini della nostra mente. Serve un cambiamento ma cambiare per noi italiani non è facile anche se di questa parola ci riempiamo solo la bocca mentre le mani e la mente rimangono nelle tasche a contare i soldi oppure a postare l’ultima bufala sui social network.

Non si cresce chiudendo le porte al mondo!

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(*) blogger di Vertenze Ambientali e operatrice sociale 

                                                                                                       

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