Articoli

Raccolta di articoli, opinioni, commenti, denunce, aneddoti e racconti, rilevati da diverse fonti informative.

Avvisi e Notizie

Calendario degli avvenimenti; agenda delle attività; episodi di cronaca, notizie ed informazioni varie.

Galleria

Scatti “amatoriali” per ricordare gli eventi più significativi. In risalto volti, paesaggi, panorami e monumenti.

Iniziative

Le attività in campo sociale, culturale e ricreativo ideate e realizzate dal Circolo “Palazzo Tenta 39” (e non solo).

Rubrica Meteo

Previsioni del tempo, ultim’ora meteo, articoli di curiosità ed approfondimento (a cura di Michele Gatta)

Home » Articoli, Documenti Storici

Giambattista Vico e il “Capuismo”

21.12.2014, Articolo di Antonio Cella

Quella che segue, è il frutto di una ricerca che ho fatto negli anni ottanta del secolo scorso. Ero appena stato assunto alle dipendenze della Regione Campania e collocato negli uffici della Soprintendenza ai Beni Librari, che alloggiava nel Palazzo Reale di Napoli, nello stesso maestoso edificio che affaccia sulla Piazza del Plebiscito e dove, con mio immenso piacere, allocava anche la più grande e famosa biblioteca del Mezzogiorno d’Italia: la Biblioteca Nazionale.

Quel gran deposito di incunabili e di libri, scritti da maestri e intellettuali di ogni epoca e nazionalità, rappresentava per me, che amo la lettura, una tentazione e una sfida che non mi facevano vivere bene quella vicinanza: mi tentavano con la stessa intensità di quando mi trovavo di fronte un piatto di bucatini all’amatriciana o, cosa assai improbabile, una donna di insostenibile avvenenza. E quando feci il mio primo ingresso in quelle sale dalle pareti piastrellate di volumi, capii in modo compiuto che mi sarei distaccato da esse non prima di aver portato a termine le ricerche biografiche e bibliografiche riconducibili a Leonardo Di Capua, originario di Bagnoli Irpino, mio paese natale, sul quale un docente di lettere, in occasione del mio esame di Stato, notata la comune origine territoriale, mi aveva fatto delle domande a cui non credo proprio di aver risposto ( per mera ignoranza) in modo esaustivo. Una figuraccia di cui sento ancora il prurito.

La ricerca mi impegnò per più giorni e, vi garantisco che fare il “topo” di biblioteca in un periodo dove non era consentito effettuare rilievi fotografici, o servirsi dei prototipi di fotocopiatrici costose e di scarsa efficacia, non era una cosa gratificante. Si doveva, perciò, necessariamente leggere sul posto centinaia di pagine di volumi che puzzavano di muffa, e riscrive a mano, pedissequamente, il risultato della ricerca. Un gran lavoro che comunque mi ha ripagato offrendomi la riabilitazione nei confronti del mio famoso conterraneo, di cui ora so tutto: vita e miracoli!

Vi auguro una buona lettura. E se doveste annoiarvi, vi prego di non investirmi con bestemmie ed epiteti malsani o affini.

Inizio col dire che, con la caduta degli Aragonesi, 1501, il Regno di Napoli sprofondò nelle tenebre della più fitta ignoranza. Gli oppressori spagnoli fecero tutto il possibile per impedire il nascere di ogni lampo di pensiero. Le università furono prese di mira e, in alcuni casi, addirittura chiuse per molto tempo. Don Pedro Alvarez de Toledo, autore della grande arteria, che porta il suo nome, e che collega la parte alta di Napoli con i quartieri spagnoli (dove alloggiavano le truppe), temendo che in quei consessi si facesse politica, sciolse le Accademie dei Sireni e la Pontaniana. Nel Museo Nazionale di Napoli è tuttora visibile la lapide con la quale nel 1573 il Vice Re Duca d’Alba, sotto la minaccia di pene pecuniarie e corporali, ammoniva i cittadini a non locare le loro case a “studenti e ad altre persone disoneste”:

“DI CH.CH REG.RI MINORI P. DI S.TO AGOST.NO

P. CAPPUCCINI

ED IL MON.RIO DELLE

M.CHE DIS.TO PETITO CHE DA HOGGI AVANTI

NON ARDISCANO

LOCARE LE LORO

CASE NE FARE HABITARE IN QUELLE DONNE

CORTEGGIANE STUDENTI ET ALTRE PERSONE

DISONESTE E CHE TENESSE GIOCHI PUBBLICI

SOTTO PENA DI DUCATI MILLE DA

APPLICARSI LE SUE PARTI AL R. FISCO ET LA

TERZA PARTE ALL’ACCUSATORE CON PENE ANCO

CORPORALI D’ARBITRIO DI S.E. ET A  CHE  VENERA’

AD HABIT SOTTO PENA DI PERDERE LA ROBBA,

OLTRE LE PENE CORPORALI, ANNO D.NI

MDCXXIII”

La Spagna, come la storia insegna, si era alleata con il Vaticano e nel corso di due secoli di dominazione impegolò nella religione anche la vita civile di Napoli: invase le scuole, le case, i nobili ed i plebei (e l’epigrafe sopra riportata ne è la prova più evidente). Furono costruite centinaia di chiese (ne esistevano, per l’esattezza, 340) e 74 ricchissimi monasteri, tutti occupati da un esercito di preti, di monache e di frati il cui numero superò di gran lunga quello della stessa Roma.

Il popolo, oltremodo ignorante e superstizioso, era completamente succube della potenza del clero che in ogni momento della vita quotidiana era presente con processioni e inaugurazioni di chiese e tabernacoli. I monaci della chiesa di sant’Antonio Abate, per esempio, possedevano grandi mandrie di porci che, grazie alla immunità ecclesiastica dei loro “mangiatori”, vagavano liberamente per le vie della città e ricevevano l’alimento per devozione, come le sacre mucche indiane. Essi, infatti, erano considerati “cosa sacra”, perché imposti da Roma nel patrimonio del Cardinale Barberini, Abate di Sant’Antuono (salito, poi, sul trono di Pietro col nome di Urbano VIII).

Le condizioni sociali dei napoletani dell’epoca erano, per certi aspetti, non tanto distanti da quelle attuali, (Fidatevi! Ve lo dice uno che ha vissuto lì per circa quarant’anni)  astraendo, ovviamente, dalla consistenza demografica del momento. Quelli dell’epoca di Toledo erano circa settantamila, di cui diecimila lavoravano e provvedevano agli alimenti per tutti. Il resto, che si quantificava in ben sessantamila anime, era dedito all’ozio, alla pigrizia, alla ciarlataneria e, come potete immaginare, era soggetto a ciò che la giornata offriva.

I primi passi verso il rinnovamento culturale del Regno vennero mossi nel buiore del XVII secolo da LEONARDO DI CAPUA (medico-filosofo di Bagnoli Irpino, 1617-1695). Egli, al pari di Bacone in Inghilterra, di Cartesio in Francia, di Paracelso in Svizzera e di Galileo Galilei in Italia, fu l’attore principale, il protagonista, direi, di quel processo di rinnovamento razionalistico che si proponeva di restituire alla corrotta e decaduta arte del secolo: purezza, semplicità di linguaggio e d’immagini, più tardi esplosa sotto l’etichetta di “positivismo”.

La filosofia dell’epoca era oppressa, non meno della medicina, dall’Autorità spagnola e dalla Chiesa. Un antico statuto del Regno imponeva l’uso nelle scuole dei libri di Aristotele, di Ippocrate e di Galeno. Ogni accenno di innovazione, d’empirismo che mettesse in dubbio il pensiero e, per meglio dire, il dogma dei sunnominati filosofi cadeva vittima dell’odio dei sostenitori degli stessi, legati a doppio filo con l’Inquisizione la quale, come scriveva il Summonte, “Era usa ad imbastir processi ereticali non tanto per amor di Dio, quanto per cavarne le severe confiscazioni delle robe”.

Leonardo di Capua, seguendo la sua indole audacissima, di genuino stampo irpino, nonostante i pericoli verso cui andava incontro quale novatore (propagatore di novità filosofico-scientifiche) s’immerse nella riforma della filosofia e della medicina, spargendo i semi delle nuove dottrine nelle scuole e nei salotti culturali “…già pieni dell’usanza pessima ed antica”. Con l’aiuto del Marchese d’Arena e del Cornelio fondò in Napoli “l’Accademia degli Investiganti”, che si prefiggeva il fine di smuovere, di agitare tutti quei problemi che inficiavano la filosofia naturale, la medicina e la matematica, per i quali il metodo sperimentale di Leonardo da Vinci aveva dischiuse nuove vie. Essa trattò, col mezzo dell’esperienza, le cose più astruse. Molte sperimentazioni furono effettuate nella “grotta dei cani” dove Di Capua impartiva lezioni sul fluido e sul solido, sul freddo e sul caldo, sul dolce e sull’amaro. L’Accademia aveva come simbolo il cane bracco col motto lucreziano: ”Vestjgia lustrat”.

Le reazioni degli “Investiganti” alle dottrine filosofiche imperanti condusse a ciò che in poesia fu detto “Petrarchismo”, ch’era una imitazione piuttosto servile del modo di poetare del Petrarca, e in prosa (e finanche nel parlare) al cosiddetto “Capuismo”, ossia a quel purismo trecenteggiante e toscaneggiante cui il Di Capua si ispirò. Lui stesso scrisse il suo “Parere sulla incertezza della medicina” nella lingua di Dante. Niccolò Amenta, nei suoi “Rapporti di Parnaso”, fa trovare di squisitissimo gusto al raffinato palato di Apollo la stiacciata del Di Capua. E G.B. Vico ribadisce l’elogio scrivendo  nella sua “Autobiografia”:  “…L’eruditissimo Lionardo Di Capoa aveva rimessa la buona favella toscana in prosa vestita tutta di grazia e di leggiadria”.

Il “Parere” figura tra le opere citate dalla Crusca. Essa, in sostanza, rappresenta la vera storia critica della medicina del seicento. E’, insomma, una difesa ad oltranza delle conquiste fatte nei campi sperimentali dell’anatomia, delle scienze naturali e della chimica. In quest’ultima disciplina l’occhio divinatore del filosofo irpino intravede la scienza del futuro “…che consente di scandagliare il fondo delle cose”.

Francesco Redi, profondo ammiratore del Di Capua, definiva il “Parere”: “…Una voce di riscossa, un programma diretto a sciogliere gli uomini da quei lacci e da quelle cecità nelle quali sono stati, ed imbavagliati dalla birba, dalla ciurmeria, dalla furfanteria, dalla ciarlataneria dei medici ignorantoni e dei filosofi che tormentano i poveri cristiani…etc.”.

Lo scetticismo del Di Capua verso la medicina del tempo derivava soprattutto dalla incompiutezza delle scienze naturali (che tutt’oggi vivono sotto la più moderna sembianza di filosofia positiva che, in effetti, rappresenta la critica della filosofia della natura). Il filosofo spronava, pertanto, gli studiosi ad abbandonare la strada infruttuosa indicata dagli antichi e invitava gli stessi a riunire gli sforzi nella ricerca, nell’applicazione del metodo sperimentale ormai perfezionato da Galileo Galilei, al fine di raggiungere quei traguardi che presentassero una più chiara visione delle cose, e consentissero nel contempo alla medicina e alla filosofia di poter scrutare il mistero del corpo umano e della natura. Mistero che, a distanza di oltre tre secoli, è rimasto, con qualche eccezione, quasi intatto. La natura è un mistero che resta e rimarrà tale nel tempo poiché, secondo il mio azzardato parere, la sua origine, la sua essenza, appare ancora fortemente esclusa dalle normali possibilità intuitive o conoscitive dell’intelletto umano. E lo stesso Galilei, fisicamente accecato dalla cecità dell’Inquisizione, attribuiva a Dio finanche la cognizione di tutta la filosofia.

G.B.Vico, “devotissimo discepolo” del filosofo irpino, con cui ebbe anche rapporti personali, abbracciò con entusiasmo l’eclettismo rinnovatore “capuista” senza mai dissacrare l’aristotelismo in voga per la nota necessità “…di non dover tirare la carrozza con le proprie budella”. Egli racconta che nel 1681, in alcuni ambienti culturali napoletani, era stata accolta una più che vera e innovatrice teoria del Di Capua sull’iride o arcobaleno. Quest’ultimo sosteneva, contro l’opinione di Aristotele, (e i moderni meteorologi gli hanno dato ragione) che l’arcobaleno, visto da una certa altezza quando il sole è alto nel cielo, appare in corona circolare. Tale teoria fu derisa da Domenico D’Aulisio, conterraneo e nipote uterino del Di Capua, (ancora oggi, nella vita di ognuno di noi, c’è sempre un parente o un amico che, per mera gelosia, ci denigra pugnalandoci alle spalle) che con i suoi discepoli (era docente universitario. Vico lo chiamava “Dottissimo”) gli amareggiarono non poco la vita.

Nell’accennare alla contesa, il Vico racconta, inoltre, che il D’Aulisio l’aveva malvisto  all’università, non perché avesse mai scritto cosa contro di lui, ma unicamente perché “…era amico di que’ letterati i quali erano stati del partito del Capoa contro di lui”. Sembra, infatti, che il D’Aulisio avesse fatto, pur senza riuscirvi, tutto il possibile per precludere al giovane filosofo la carriera accademica. Il Vico partecipò, nel 1698 al concorso per la cattedra di Retorica e fu giudicato da una commissione composta da  22 giudici, tra cui il D’Aulisio, e nonostante fosse il favorito di Medinaceli, (Duca D. Luigi della Zerda) vinse a malapena il concorso per sicuro intrico del D’Aulisio. In seguito, però, il Vico divenne suo devotissimo amico, tanto che, come egli stesso asserisce nell’Autobiografia, gli dedicò un piccolo trattato di medicina intitolato “ De aequilibrio corporis animantes”  di cui non esistono tracce.

A Giambattista Vico nessuna manifestazione del pensiero dei suoi contemporanei fu sconosciuta. Prese vivacissima parte nella contesa per l’iride e non mancò di dire la sua a proposito del conflitto tra “Investiganti” e “Discordanti”, propugnatori del nuovo e fautori dell’antico, anche se manifestando un sentimento favorevole ai nuovi progressi dell’umano intelletto, si tenne nel mezzo. Mentre, però, adulava l’opera dei novatori non disdegnava comprensione e riverenza per l’antico. Ciò lo portò a dire che le dottrine di Galeno, “per l’ignoranza dei seguaci di quei tempi, erano andate in sommo disprezzo”. Nel “De nostri temporis” sostiene, inoltre, con acute argomentazioni, la necessità di contemperare l’antico con il nuovo anche nello studio della medicina. E accenna al Di Capua, (considerato il Socrate vivente) laddove deplora la caduta della medicina nello scetticismo.

Il Di Capua nei suoi scritti non parla mai del Vico. Forse perché nulla di veramente notevole il Vico avesse già operato o, forse, perché pur essendo frequentato dal giovanissimo studioso napoletano, ancora pregno della fuliggine di Vatolla di Perdifumo, aveva avuto un’intuizione confusa della grandezza dello stesso.

                                                                                                       

Lascia un commento!

Devi essere logged in per lasciare un commento.