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I ricordi “infranti” della guerra in Libia

29.04.2011, di Ilde Rampino (da “Fuori dalla Rete”, n. 2 anno IV, Aprile 2011) 

L’intervista a Incoronata Vivolo (pubblicata su Ottopagine il 27.03.2011)

I venti di guerra, le minacce di violenze, gli sguardi disperati delle persone rappresentano in questi giorni la cifra distintiva di uno scenario che ci pone spesso in una situazione densa di interrogativi per il futuro. Abbiamo raccolto la testimonianza di una delle tante persone che hanno vissuto in quella terra ora martoriata: Incoronata Vivolo, Assessore alla Cultura e alla Pubblica Istruzione del Comune di Bagnoli e direttore amministrativo presso il liceo di Montella, che ci ha parlato della sua esperienza in Libia e dei suoi ricordi.

Ci racconti come ha vissuto la sua infanzia in una terra di cui i più giovani hanno sentito parlare solo ultimamente, per le minacce di Gheddafi.

Sono nata in Libia, la mia famiglia si era trasferita là, mio padre aveva 3 anni, il mio bisnonno andò ad investire l’intera buonuscita della sua pensione in quella terra: era il 1912, era perito agrario e coltivava una grande passione per il lavoro. La mia famiglia è rimasta lì fino al 1970. Il 1 settembre 1969, Gheddafi fece un colpo di stato, provocando la caduta della monarchia del re Idris, che regnava dal 1956. I miei genitori mi raccontavano che la monarchia filooccidentale del re Idris si era sempre impegnata alla collaborazione e al rispetto nei confronti degli stranieri residenti. La presa del potere da parte di Gheddafi ha capovolto lo scenario: si è avuta la nazionalizzazione delle imprese e dei possedimenti italiani, la confisca dei beni mobili e immobili alle imprese e ai privati italiani e sono state avanzate richieste di risarcimento per danni coloniali e di guerra.

Con Gheddafi le cose quindi sono cambiate radicalmente. Come si sentiva, Lei italiana, a vivere in una terra straniera? E cosa prova ora nei confronti di coloro che stanno lottando per ottenere la libertà?

Mi sento molto vicina al popolo libico. Con il decreto di espulsione attuato in violazione del trattato italolibico del 1956, siamo stati costretti ad abbandonare quella terra che sentivamo nostra. Quando ascolto le notizie della guerra non sono soddisfatta solo per la rivoluzione posta in atto nei confronti di Gheddafi, ma mi rendo conto che il popolo libico chiede la democrazia, che rappresenta l’espressione dello stato unitario, io mi auguro che il popolo libico possa trovare il percorso giusto per riconquistare i propri diritti. Gheddafi con la sua retorica anticoloniale si erge a liberatore dal colonialismo, dichiara che l’Italia è il paese nemico, si ricollega a colui che è considerato l’eroe nazionale libico: Omar El Muktar, il veterano della resistenza anticolonialista contro gli italiani negli anni ‘20, che fu poi impiccato nel 1931 ad opera del vicegovernatore della Cirenaica, il generale Graziani, in seguito all’ordine impartito da Mussolini. In realtà vi era un’economia complementare, la conflittualità non serve, la guerra non rappresenta una soluzione, bisogna rivolgersi ad altri mezzi.

Come pensa che si possa aiutare il popolo libico?

Il popolo libico non ha soltanto bisogno di cibo o di acqua, come afferma la propaganda di Gheddafi, ma per essere libero ha bisogno della democrazia, di sentirsi protagonista della propria storia. Il reddito procapite del popolo libico è il più alto rispetto a quella dei paesi vicini, ma essi hanno bisogno di altro. Il Paese è ricco, ma la sua gente è molto povera: bisogna riflettere molto su questo fatto. Provo molto dolore nel vedere la disperazione di quello che una volta consideravo anche il mio popolo. Ho tanti ricordi di quella terra. Quando sono stata costretta a partire, avevo nove anni, ci sono cose che si sono fissate nella mia memoria per sempre, come l’odore del fuoco sempre acceso, il profumo del tè alla menta, del cuscus, il ricordo struggente dei villaggi di argilla, le corse a piedi nudi, la gazzella che saltava, le dune che per noi bambini rappresentavano un gioco meraviglioso, le donne che andavano a prendere l’acqua al pozzo, ricordo i compiti che facevamo alla scuola elementare – frequentavo le scuole francescane – andavo a piedi, le scuole erano miste, c’erano tanti bambini, almeno quattro o cinque bambini a famiglia. La mia compagna era una bambina araba che aveva imparato benissimo l’italiano, anch’io ho imparato a parlare l’arabo, per quello che ho potuto imparare in quegli anni, c’era uno scambio bellissimo tra noi.

Qual era la situazione degli stranieri in Libia in quel periodo?

Il colpo di stato di Gheddafi, fu un momento particolare per la Libia, ma devo dire in realtà che la popolazione non ha mai pensato a noi italiani come colonizzatori; nonostante ciò che sostiene Gheddafi, gli stranieri che sono andati in Libia e soprattutto gli italiani, hanno creato qualcosa da quello scatolone di sabbia, hanno costruito ponti, teatri, cinema, strade, scuole, hanno bonificato terreni sabbiosi… il mio bisnonno ha vinto la medaglia d’oro per un concorso “La battaglia del grano” negli anni ‘30. La politica coloniale è stata diversa da quello che riferiscono, il programma italiano prevedeva la collaborazione con le popolazioni locali, non c’erano aspetti speculativi, non è stata una pagina vergognosa. Ci sono stati naturalmente anche momenti tragici, come i giorni del coprifuoco, dovevamo parlare a bassa voce per non farci sentire ai militari, durante l’ora di canto a scuola si iniziavano e terminavano le lezioni con l’inno di Mameli, ma dovevamo cantarlo a bassa voce per evitare le conseguenze di un eventuale intervento della polizia militare, ma era difficile, l’inno si deve cantare a voce piena. Ricordo il giorno della partenza dalla Libia, il 26 marzo 1970, l’imbarco per l’Italia, gli aerei militari che minacciavano di bombardare se non facevamo in fretta, ci spintonavano, ricordo un episodio che mi è rimasto impresso: alcuni soldati strappavano dalle mani di una bambina la sua bambola e lei piangeva disperata e loro la lasciavano fare, guardandola con disprezzo, mi colpiva l’estrema noncuranza da parte di quelle persone. Eravamo tanti a partire … eravamo circa ventimila persone.

Cosa le manca davvero di quel periodo?

Soprattutto i miei amici, i compagni di scuola, nelle classi vi erano arabi e italiani e vivevamo sereni insieme, non c’era differenza o rivalità di nessun genere, erano i compagni di gioco nella mia età più felice, ci sentivamo a casa in realtà. Se potessi tornare in Libia – ma non posso farlo, non mi farebbero passare – sarei felice, Tripoli è la città in cui sono nata e cresciuta, dalle foto che mi arrivano vedo strade dissestate, l’illuminazione pubblica ormai quasi inesistente, questa città sta decadendo irrimediabilmente, me la ricordo molto diversa, era una città cosmopolita, vi erano tanti stranieri, francesi, tedeschi, inglesi, oltre alla comunità ebraica e italiana, si

insegnava la nostra lingua, non ci sentivamo estranei, vi era collaborazione, ora è cambiato tutto … in un certo senso una parte di me è ancora là, nonostante ci sia vissuta pochi anni, porto con me il “mal d’Africa”, esiste realmente, serbo in me le emozioni e le trasmetto ai miei figli.

Cosa ne pensa del problema dei profughi?

Bisogna avere partecipazione e sentimento di solidarietà per soccorrere chiunque, è necessario non perdere la capacità di emozionarsi, aprire il nostro cuore e il nostro pensiero ad una solidarietà più concreta, oggi manca il rispetto nei confronti degli altri, c’è bisogno di credere in qualcosa di più profondo, i ragazzi devono avere la possibilità di un modello di vita diverso, ci vogliono segnali per sentirci presenti col cuore, comprenderci di più, dare il meglio di noi stessi al di là della fede religiosa.

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L’intervista a Incoronata Vivolo, Ottopagine 27.03.2011 (2,46 mb)

                                                                                                       

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