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I volti, le voci e i silenzi dell’Ecuador nel viaggio di Agostino

24.08.2012, Articolo di Maria Varricchio (da “Fuori dalla Rete” – Agosto 2012 – Anno VI, n.3)

A conclusione della lettura del libro “Nove quarti di luna” di Agostino Arciuolo, non ho potuto fare a meno di fare una riflessione (anche piuttosto ovvia, ma paradossalmente proprio per questo trascurata) sulla differenza fra viaggiare e spostarsi.

Milioni di persone, ogni giorno, macinano chilometri su chilometri, dando vita ad un’ impressionante rete di spostamenti. Punti di partenza e punti di arrivo tracciati per le più svariate motivazioni. E in mezzo? E il dopo?

La domanda chiave di un vero viaggio, infatti, non è il “cosa”, l’oggetto, ma il perché e più ancora il “come”; tutto quello che si scoprirà oppure no è essenzialmente il risultato del nostro modo di guardare davanti e dentro di noi e della consapevolezza che ogni vero viaggio è incontro, convivenza, condivisione, (ri)scoperta.

Probabilmente molto dipende al bagaglio invisibile che ci portiamo dietro, dalle convinzioni che “lasciamo a terra”, dalle idee che ci tengono compagnia all’andata e da quelle che riconduciamo con noi al ritorno.

Agostino nel suo viaggio porta (e lo afferma esplicitamente) la coscienza chiara delle motivazioni che lo hanno condotto a tracciare questo percorso: l’amore e l’interesse per l’America Latina, la volontà di vedere se stesso in un’altra prospettiva e la convinzione che bisogna partire per ritornare, staccarsi dal proprio paese per radicarsi nuovamente ad esso, mettersi in discussione per riappropriarsi di quelle certezze su cui ciascuno fonda la conoscenza di sé.

Lascia a terra, invece, l’ingombrante zavorra di presunzione del “primo” mondo di rappresentare l’unico modello possibile per lo sviluppo, verso cui inevitabilmente dovranno convergere gli sforzi dei paesi emergenti.

Accompagnato da questi pensieri, l’autore ha fissato il punto di partenza e il punto di arrivo: l’Irpinia, terra di ex contadini e l’Ecuador, paese che non ha smesso mai di “generare” contadini. Il “fuso temporale” è di circa sessanta anni, ma il legame viscerale con la terra non è poi così diverso anche se sono cambiate le coordinate geografiche.

Eppure una differenza c’è ed è sostanziale: lo spartiacque della globalizzazione, questa sorta di spietato gioco del “chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori”, dove le regole( se di regole si può parlare) non sono mai negoziate e dove l’entità astratta del mercato mondiale fagocita l’identità concreta dei mercati locali, ultimi veicoli, forse ancora per poco, di contatti umani negli scambi economici.

In Ecuador Agostino è rimasto due mesi, vivendo a stretto contatto con i campesinos, condividendone la fatica, portando un po’ del nostro mondo a bambini che non scenderanno mai sotto i 3000 m di altitudine e imparando, però, molto di più di quello che ha insegnato.

Chi si aspettasse dalle pagine di questo diario il racconto di una semplice esperienza di volontariato rimarrebbe deluso; certo, ci sono quei “nove quarti di luna” a testimoniare che l’autore è andato a “dare una mano”, a “ prestare” il proprio tempo, ma, come è ben scritto nel libro, queste espressioni rischiano di scivolare nell’ipocrisia di chi crede che basti solo qualche piccolo sforzo per autoconvincersi di aver fatto “qualcosa”.

Anche questa sottile forma di presunzione viene svelata: “fare del bene” lasciando che rimanga inalterata la visione dicotomica di un mondo inevitabilmente diviso in ricchi e poveri, tra noi e gli altri, senza nemmeno provare anche solo a immaginare un’opzione diversa è un altro modo per trincerarsi comunque nella difesa del nostro benessere.

A corroborare questa chiave di lettura è lo stile del racconto, proprio di chi sta svolgendo un apprendistato, di chi vuole ascoltare più che parlare, concedendosi nella narrazione qualche pausa riflessiva, ma il più delle volte rimanendo un passo indietro.

Con la capacità di osservare e ascoltare, doti di un buon viaggiatore e a maggior ragione di un buon narratore, l’autore riesce a dare voce e volto ad un’ umanità straordinaria e dolente che abita questo paese sospeso tra terra e cielo; ci conduce nei silenzi vertiginosi delle notti andine e in quelli, non meno profondi, dipinti sui volti delle donne indigene, passando attraverso la chiassosa vitalità dei bambini che sanno ancora entusiasmarsi per ogni piccola nuova scoperta.

L’Ecuador ovviamente non è l’Arcadia della letteratura; lì i contadini sono costantemente in lotta non tanto con la terra, che pure sa essere generosa, ma con lo spettro di una miseria endemica e di un debito che non salderanno mai, indipendentemente da quante ore rimarranno curvi sui terreni.

Quando l’autore si concede un po’ più di spazio, lo fa per denunciare il perverso meccanismo che regola i rapporti di forza tra nazioni ricche e nazioni povere e che non ha solo effetti economici, ma anche culturali; l’invadenza occidentale, infatti, sta producendo una “metamorfosi antropologica” che rischia di far scomparire i tratti originali di “un mondo dissimile e lontano, ma non certo arretrato”.

Non si tratta di nuove convinzioni, ma della rinnovata consapevolezza di ciò in cui si crede che però non sarebbe stata possibile senza la disponibilità a lasciare che il “Sé” che pensiamo di essere incontri realmente l’ “Altro”, ne condivida le fatiche e le sconfitte. Anche solo per “nove quarti di luna”.

                                                                                                       

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