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Il deserto che avanza

21.06.2012, Articolo di Agostino Arciuolo (da “Fuori dalla Rete” – Giugno 2012 – Anno VI, n.2)

Le righe che seguono non sono che un tentativo: quello di raccontare quanto accaduto la mattina del 6 giugno in due diverse città dell’Afghanistan, Lowgar e Kandahar, a cinquecento chilometri e qualche quarto d’ora di distanza. Pur non avendo vissuto i fatti in prima persona (e, d’altra parte, come avrebbe potuto?), chi scrive ha provato con l’immaginazione a rivivere da vicino quei momenti, al fine di restituirne una narrazione quanto più concreta e veritiera possibile, così da sottrarre la notizia alle consuete distrazioni da ultima pagina (dove i principali media nazionali l’hanno, con notevole sforzo, derubricata).

Kandahar, Sud dell’Afghanistan, 6 giugno 2012. Già brucia il primo sole, nell’afa mattutina. L’orizzonte è un manto di sabbia arroventata. A stento lo vedi che ondeggia lontano, offuscato dalla polvere che il suolo, riarso, non riesce a trattenere. Tutt’intorno, il deserto.

In città stamane è mercato: all’ombra dei bazar è pieno zeppo di viandanti scalzi in cerca di prezzi al ribasso, scettici al richiamo di ciarlatani in turbante appostati dietro i loro sacchi di spezie, in mezzo a galline spennacchiate e famelici roditori pronti all’agguato. La mercanzia più ricercata si vende sottobanco e si consuma nel retrobottega: oppio afghano, di prima scelta, giunto qui direttamente dalle montagne del Nord. Da quando è iniziata la guerra il suo consumo è incrementato in maniera vertiginosa. Non c’è forse altro rimedio a questo lento logorio quotidiano. È il deserto che avanza, inesorabile, da Occidente. A pochi chilometri da qui, dietro il muro di cinta rinforzato col filo spinato, c’è una base militare dove gli aerei della Nato atterrano e decollano senza sosta. Ogni volta è un casino infernale, e nugoli di polvere che si alzano a ricoprire la città. Ogni volta è il deserto che avanza.

A pochi passi dal mercato, giusto dietro l’angolo, c’è un ampio parcheggio dove ogni giorno fanno sosta i camion che riforniscono la base aerea. Stamattina ce ne sono più del solito. C’è un tipo anomalo, dalla faccia ombrosa, che si aggira guardingo. E c’è pure un ronzio strano che s’avvicina: è una motocicletta, come poche se ne vedono da queste parti. Nessuno può sapere che è imbottita di esplosivo, e che fra pochi istanti il tizio che la guida si lascerà saltare in aria schiantandosi contro uno di quei camion. È un attimo: un boato tremendo si libra nell’aria. A fargli da eco, pochi secondi dopo, le urla spaventate dei passanti, lo strazio dei feriti, il silenzio dei morti. Una decina forse, tutti civili.

Qualcuno, tuttavia, sembrava saperlo: quel tizio sconosciuto che poco prima del botto si aggirava lì intorno, e che, al sentir arrivare la motocicletta, si è scostato giusto in tempo per non finirne travolto. La folla intanto già si raduna sul luogo dell’impatto, lasciando vuote le vie del mercato. Qualcuno tenta di prestare soccorso. Qualche altro approfitta della confusione per riempirsi le tasche sui banchi della frutta e darsela a gambe. Nessuno può saperlo, ma quel tipo guardingo non è lì per caso: anche lui è imbottito di esplosivo e tra qualche secondo, dopo essersi ben addentrato nella ressa, premerà il detonatore senza pensarci su nemmeno una volta. Sembra solo il dejavu di prima, ma il conto dei morti sale, raddoppia: più di venti, ancora tutti civili.

Si chiama guerra il deserto che avanza, sebbene qualcuno preferisca chiamarlo “terrorismo”. E a Kandahar neanche le protesi col paracadute si vedono più piovere dal cielo.

Provincia di Lowgar, Afghanistan orientale, 6 giugno 2012. Anche qui già brucia il primo sole, lo stesso, ma l’aria è più secca, leggera, meglio respirabile. Lowgar non è Kandahar, ma il deserto non sembra dar pace agli afghani, ovunque essi siano. E la minaccia della sua avanzata è giunta fin qui, senza scampo.

Da queste parti, agli occhi di questa gente, l’orizzonte è confine: laggiù, a poche ore di cammino, subito oltre il presidio militare che funge da barriera doganale, c’è il Pakistan. I soldati della Nato sanno quali pericoli possono arrivare da lì, e vanno sempre in giro protetti nei loro mezzi blindati, armati fino ai denti. I controlli si sono infittiti negli ultimi tempi, specie dopo la cattura e l’uccisione di quel vecchio sceicco barbuto che per ben un decennio si è fatto inseguire in lungo e in largo.

Stamattina, però, si respira un’aria più strana del solito: fuori è fin troppo calmo, e soldati per strada non se ne vedono. I bambini giocano nei cortili, e i più piccoli di loro sorridono come se la guerra fosse già scampata, dimenticata, conclusa da un pezzo. Come se il deserto non fosse mai arrivato. Se non fosse per il filo di preoccupazione che trapela dai volti, pur coperti, delle loro madri, sarebbe proprio una gran bella giornata, di quelle poche che si ricordano volentieri alla fine dell’anno. Ma quegli occhi materni, velati dal nero asfissiante del burqa che sono costretti ad indossare, non si staccano per un istante dai corpi irrequieti dei loro figlioli.

Da una settimana gira voce che da qualche parte qui vicino si trova il covo di un pezzo grosso talebano. I soldati occidentali lo sanno, e hanno già perquisito, spesso con violenza ingiustificata, più di una abitazione. Sfondano le porte e buttano tutto per aria, lasciando in lacrime i bambini e le loro giovani madri indifese. Da giorni hanno militarizzato tutte le vie di fuga del villaggio. E sembra che alla fine, dopo tanto setacciare, qualcosa l’abbiano scoperta. C’è chi dice che hanno già individuato il rifugio e che potrebbero colpire da un momento all’altro.

Un sibilo, d’un tratto, solca il cielo, e l’ombra di un caccia americano sorvola minacciosa i tetti delle case. Nel giro di qualche istante le strade si svuotano: eccolo il deserto, il deserto che avanza. Il sibilo ora diventa quello di una bomba appena sganciata, che cade in picchiata sul suo presunto obiettivo: è una casa come le altre, in mezzo alle altre. Lo scoppio è impressionante, e al diradarsi del fumo e della polvere non resta che un cumulo di macerie frammisto a brandelli di carne, strappi di stoffa nera, sangue. Poi più niente, silenzio, deserto.

Le vittime dell’esplosione sono 15, tutti civili innocenti. Fra loro anche donne e bambini. La Nato, incurante, nega. Del capo talebano neanche l’ombra.

Si chiama guerra il deserto che avanza, sebbene qualcuno preferisca chiamarlo “missione di pace”. E a Lowgar, come in tutto l’Afghanistan, resterà per sempre maledetto il nome di chi ce l’ha portato. Il nostro compreso.

                                                                                                       

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