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Il fuoco dei monaci tibetani nel buio del mondo

31.03.2012, La Stampa (di ENZO BIANCHI)

Ancora un monaco tibetano che muore dopo essersi dato fuoco per denunciare il pugno di ferro della Cina contro il popolo e le tradizioni religiose tibetane. Ancora un giro di vite di funzionari ed esercito per controllare, prevenire e reprimere espressioni di dissenso che scaturiscono dai monasteri buddisti.

Ancora una volta le fiamme dell’immolazione che non riescono ad accendere la solidarietà di quanti potrebbero e dovrebbero alzare la voce in difesa degli indifesi. Diventiamo sempre più sordi e muti di fronte all’oppressione operata dal più forte, dal troppo forte contro il più debole, il troppo debole, l’inerme. Eppure, la disarmante testimonianza di chi usa violenza contro se stesso per denunciare quella compiuta quotidianamente contro il proprio popolo non cessa di gridare: con più si cerca di soffocarla e con più la brace coperta dalle ceneri lascia sprigionare l’ardore di chi sa di battersi per una causa giusta.

E per la medesima causa si battono anche i tantissimi giovani che, senza arrivare all’immolazione finale, non cessano di ingrossare le fila dei monasteri buddhisti in Tibet. Cosa li spinge, per un periodo di tempo o per la vita intera, in luoghi sorvegliati come prigioni e in condizioni di vita durissime? Cosa anima la loro ricerca interiore, cosa la tiene in comunione profonda con l’anelito di un popolo? Il desiderio di vivere secondo il sentiero buddhista, una via «monastica» nella sua essenza e struttura, sognando la sopravvivenza e la rinascita di una società dove tutti dovrebbero poter incontrare sul proprio cammino i monaci che, in silenzio, nella fiducia e nell’abbandono alla generosità dell’altro, chiedono quotidianamente per strada una ciotola di riso, nutrimento per loro sì, ma soprattutto occasione per il donatore di perseguire la rettitudine della propria vita. Anche quando questo rapporto con il popolo è coartato e reso impossibile, in realtà la relazione si mantiene viva: i tibetani sanno di poter contare sui monaci, sulla loro capacità di soffrire anche per gli altri, di tener desta una lingua e una cultura, di gridare con voce più forte del silenzio loro imposto, di dare la vita per gli altri fino alle estreme conseguenze.

Per questo i monaci incutono sempre timore ai potenti di turno; per questo sono controllati, osteggiati, oppressi; per questo si fan sparire le tracce del loro sacrificio, si nega al monastero di appartenenza o ai parenti il corpo di chi si è immolato, si cerca in ogni modo di spezzare il legame di solidarietà tra monaci e popolazione della regione. Il monachesimo, non solo quello buddhista, è da sempre, per sua natura elemento che si colloca ai margini e al cuore della società in cui vive: separato nei luoghi e nei modi di vivere, ma unito a tutti nella tensione spirituale, nella ricerca di senso, nella lotta al dolore, nella libertà di porsi al servizio dell’altro.

Noi, storditi più che distratti da interessi economici e politici, vorremmo che calasse il buio sul martirio del popolo tibetano, che nessuno disturbasse i manovratori, che non troppa luce illuminasse la negazione dei diritti umani. Il silenzio orante dei monasteri e le grida in fiamme delle torce umane squarciano questo buio, disturbano i nostri affari, illuminano la nostra meschinità. Ancora una volta chi più appare fuori dal mondo ce ne narra la realtà più scomoda.

                                                                                                       

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