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Il Grande Esodo che non c’è più

04.08.2012, Massimo Gramellini (La Stampa)

Oggi è il gran giorno che non c’è più. Il primo sabato d’agosto, quello del Grande Esodo, con il suo armamentario di frasi fatte a uso dei telegiornali: il caldo opprimente, le partenze intelligenti, le code da bollino nero. Ebbene: avremo il caldo, le code e le partenze intelligenti, ma lo siamo abbastanza anche noi per sapere che si tratta di una finta.

Da un lato la parola Esodo si è disgregata – chi può va in vacanza fuori stagione, quando gli alberghi costano meno -, dall’altro si è rimpicciolita e immalinconita. Evoca poveri cristi senza stipendio né pensione, gli esodati. E risuona sarcastica alle orecchie di quegli italiani che non hanno più i soldi e nemmeno lo spirito per staccare davvero la spina.

Un tempo neanche troppo lontano – vent’anni fa – un impiegato in viaggio con la famiglia nel primo sabato d’agosto poteva permettersi tre settimane di villeggiatura a pensione completa. Poi le tre settimane si sono ridotte a due, a una e infine a questa mancia di divertimento preso a morsi.

Un paio di giorni e si torna in città a lavorare o semplicemente a non fare nulla, perché il lavoro non c’è oppure l’ufficio ha chiuso per ferie e nessuno sa se a settembre riaprirà ancora.

Le vacanze di massa erano il rito di un’Italia consumista e benestante. A tratti grottesco come tutti i riti collettivi, ma carico di significati simbolici. Le migliaia di persone che si ritrovavano sudaticce al casello partecipavano a una festa sgangherata di ringraziamento. Rendevano omaggio al dio del Boom che le aveva fatte nascere nella parte ricca del pianeta e offrivano ai figli e a se stessi quella possibilità di evadere dalla realtà quotidiana che era stata preclusa ai loro avi. Qualsiasi viaggio è una fuga, ma anzitutto una rinascita. Ci si trasferisce in un altrove per poter svuotare la tensione accumulata e ricaricarsi di energia. Staccare e riaccendere l’interruttore, con la speranza che nell’attimo di buio che separa le due operazioni succeda qualcosa – un amore, un’intuizione – che ci restituisca alla vita di tutti i giorni profondamente rinnovati.

Mai come adesso avremmo bisogno di un Grande Esodo. Spegnere e accendere l’interruttore per guardare le cose da un’altra prospettiva. In questa estate del nostro scontento, chi non ha soldi e impieghi non sa come trovarne e chi li possiede ancora ha paura di perderli all’improvviso. Il sentimento dominante non è più l’attesa, ma la disillusione. I politici costano ancora troppo ma non contano più nulla. Gli intellettuali e i capi partito non tirano fuori un’idea di futuro che non sia la riproposizione improponibile di modelli del passato. Gli europei senza sole del Nord non hanno intenzione di dare un soldo a quelli del Sud, che considerano dei privilegiati. I signori della finanza non hanno pagato il conto della crisi provocata dalla loro avidità e continuano gelidi a spadroneggiare. Due eventi inediti e meravigliosi – la scomparsa delle guerre in Europa e il prolungamento della vita media – hanno prodotto l’effetto collaterale di una società vecchia e ingessata, che non ha spazio per i quarantenni, figuriamoci per i ventenni. L’attesa spasmodica del Leader Messianico è stata definitivamente frustrata dalla mesta parabola del buon Obama, partito per cambiare il mondo e finito a giocarsi la difficile riconferma contro un bellimbusto sovvenzionato da Wall Street. L’economia che sta conquistando il mondo è quella che maltratta i lavoratori e non rispetta la natura.

Se questo è il quadro, a chi affidarsi se non a se stessi? Ma come si fa ad affidarsi a se stessi, quando si è deboli, malati, modesti? Molti riesumano le vacanze della seconda metà degli Anni Quaranta, consumate fra le macerie della guerra. Ma allora il morale era inversamente proporzionale allo stato delle abitazioni. Costruire il benessere regala sempre più gioia che difenderlo. Il nostro tarlo è tutto lì: sembriamo anziani aggrappati al borsellino con le unghie, per il terrore (più che giustificato) che qualcuno ce lo scippi. Invece l’unica rivoluzione possibile è tornare a pensarci come bambini che ricominciano da zero. Riandare a quel tempo della nostra infanzia in cui il Grande Esodo d’agosto non era tanto una vacanza, ma uno scatto interiore per esplorare in maniera più limpida la vita.

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04.08.2012, di BRUNO GAMBAROTTA (La Stampa)

Il bollino nero è diventato rosa o fucsia

Non ci sono più i Bollini Neri di una volta. I notiziari ancora minacciano il «week end da bollino nero», ma lo fanno più che altro per pigrizia lessicale o per evocare il buon tempo antico. A conti fatti il bollino si rivelerà rosa o fucsia.
Nelle cronache di un tempo la parola più gettonata era «esodo», con la variante «esodo biblico». In quegli anni si partiva e si ritornava tutti insieme. Anche le aziende che non avevano alcun rapporto con la galassia Fiat (poche per la verità), chiudevano i battenti in coincidenza con le «ferie Fiat». Nell’ultimo giorno di lavoro, alla conclusione di ogni turno, sui piazzali davanti alle fabbriche si radunavano le auto dei dipendenti con un mostruoso parallelepipedo di bagagli sul tetto, avvolto nel cellophane e imbracato da decine di corde elastiche. All’interno moglie e figli in fremente attesa del marito e padre che timbrava il cartellino, usciva, si metteva alla guida e partiva in direzione sud per un viaggio che poteva durare anche più di dodici ore.

La gloriosa Seicento, comprata a rate firmando cambiali, non aveva l’autoradio perciò le notizie sul traffico in tempo reale non distraevano il guidatore che con pazienza seguiva il flusso continuo di auto che ogni tanto sostava per poi ripartire, mentre sull’altra corsia dell’autostrada passava un’auto ogni mezz’ora. Su quelle utilitarie non c’era neanche l’aria condizionata perciò i finestrini abbassati permettevano di fare conversazione con i passeggeri delle auto che si affiancavano nelle soste. E che poi ci superavano perché la nostra corsia era sempre la più lenta. Per distrarre i bambini si giocava con le targhe delle auto davanti alla nostra, vinceva il primo che azzeccava il nome della provincia o scopriva un numero più alto degli altri. Se la sosta si prolungava si usciva per sgranchirsi le gambe e fare due chiacchiere con i vicini. Chi non aveva ancora l’auto partiva in treno. Stando già pronti sulla banchina, in attesa dell’arrivo dei vagoni dal deposito, svelti a lanciare il figlio più piccolo nello scompartimento attraverso il finestrino aperto in modo da occupare i posti.
Al rientro in città il volume dei bagagli era cresciuto perché si portavano su i prodotti del paese d’origine, i pomodori secchi, l’olio, il pecorino, i peperoncini. Il giorno successivo alla partenza in massa, i giornali pubblicavano la foto di via Roma deserta, percorsa da un solitario pattinatore a rotelle, sempre lo stesso, che viveva tutto l’anno in attesa di quel momento di gloria. I lettori scrivevano deprecando la chiusura totale dei negozi e auspicando l’introduzione delle ferie scaglionate, «come nei Paesi più civili del nostro». E’ vero che il tempo addolcisce i ricordi ma noi rimpiangiamo quelle lontane estati perché ci rendiamo conto che quel modo di partire e di tornare tutti insieme era la celebrazione di un rito. Era il rito pagano delle vacanze, vissute collettivamente come tempo separato dal tempo del lavoro. Una società, per rimanere coesa e per riconoscersi tale, ha bisogno di riti nei quali specchiarsi. Ora il rito delle ferie è andato in frantumi; ciascuno di noi, navigando ossessivamente in rete alla ricerca dell’occasione migliore, si costruisce la sua personalissima vacanza e parte stando sempre connesso. Molte aziende non chiudono i battenti e incoraggiano i dipendenti a dividere il blocco unico delle ferie in tanti segmenti più piccoli.

Il vacanziere solitario ogni giorno riverserà nel suo blog le esperienze, l’elenco dei cibi, le emozioni e le fotografie delle sue ferie, non trascurando di postare i giudizi e i voti sui mezzi di trasporto e sulle strutture che l’hanno ospitato, entrando in contatto (virtuale) con altre monadi in giro per il mondo. Tornato a casa e ripreso il lavoro, occuperà parte del tempo libero a tenere i contatti (virtuali) con gli altri viaggiatori che hanno condiviso le sue esperienze. Archiviato il pattinatore di via Roma, sui giornali comparirà la fotografia di piazza Carignano con le panchine occupate da turisti intenti a riversare sul computer aperto sulle ginocchia il diario del loro soggiorno a Torino

                                                                                                       

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