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Il lupo appenninico

09.03.2017, Articolo di Vincenzo Garofalo (da “Fuori dalla Rete” – Gennaio 2017, Anno XI, n.1)

lupo-appennincoAngoli ancora selvaggi della nostra penisola, che in tanti associano alle Alpi, dopo essere rimasti incantati dai panorami mozzafiato che queste regalano, ma che trovano espressione di un’autenticità diversa, meno imponente, ma probabilmente più barocca, con gli Appennini.

La catena Appenninica, una lunga spina dorsale che porta la nostra penisola fin nel cuore del Mediterraneo, una barriera divisoria tra l’Adriatico ed il Tirreno, un sentiero di creste che congiunge la Calabria ai confini di Francia, seguendo l’arco alpino, con Svizzera, Austria e Slovenia. Questa lunga catena montuosa, che colpì il tedesco Goethe nel suo Viaggio in Italia , viene descritta quale “pezzo meraviglioso del creato”,che dalle “grande pianura della regione padana segue [una catena di monti che] si eleva dal basso, per chiudere verso sud il continente tra due mari”. Con i suoi 1500 Km, divisi longitudinalmente in tre macro-aree, Appennino Settentrionale, Appennino Centrale e Appennino Meridionale, è ricco di flora e fauna. Un ecosistema incantevole, tra faggete meravigliose, declivi popolati da querce e castagni, ginestre e fiori d’ogni tipo, casa ospitale per volpi, faine, gufi, falchi, aquile, poiane, salamandre, diverse varietà di rettili e anfibi, cervi, daini, tassi, pipistrelli, che accoglie anche il più incantevole e impressionante predatore della penisola, il lupo.

Il lupo appenninico, il cui nome scientifico è Canis Lupus Italicus, è uno di quei tesori inestimabili del patrimonio italiano. Assieme ad altre specie animali, purtroppo, nel tempo ha subito una vera persecuzione da parte dell’uomo. Il lupo, ma anche il rospo, sono stati sempre stati oggetto di superstizione e associati a eventi nefasti e negativi. Nelle storie popolari, ad esempio, il lupo è sempre rappresentazione del male, del pericolo, della cattiveria. Predatore infallibile, fin dall’infanzia viene narrato come nemico, si pensi al lupo nero che arriva nel buio, oppure al lupo delle favole, come quello di Cappuccetto Rosso . Ma il lupo è davvero così cattivo come la superstizione ed il folklore ce lo descrivono? La risposta è sicuramente negativa. Il lupo è un animale schivo, timoroso dell’uomo, tutt’altro che legato alle aree antropizzate, e sono proprio queste ultime a segnare il confine tra la vita e la morte. Il lupo, invece, trovando capi e capi concentrati, è attratto dalla presenza di queste greggi o mandrie. Ma da dove nascono, attualmente, i problemi è facile intuirlo. Gli equilibri della vita di montagna si sono consolidati nel tempo: il lupo, cacciato senza alcun rimorso, era quasi scomparso dai monti appenninici, e la pratica dell’allevamento aveva assunto un carattere nuovo. Nessun predatore a minacciarne la redditività. Il predatore arriva furtivo, uccide, sconvolge, lascia terrorizzate le pecore superstiti. Non basta un risarcimento economico, dalla legge garantito in caso di predazione del lupo, poiché le sopravvissute soffrono immancabilmente di stress: si riduce la produttività di latte, si rallenta la fase riproduttiva e in casi particolari si riduce addirittura il sistema immunitario, mostrando un incremento di epidemie parassitarie. La soluzione è la cacciata del lupo? Sicuramente no.

La soluzione del problema è lunga, complessa, ma non impossibile: imparare a vivere con l’animale, affrontarlo e assecondarlo. In diversi angoli d’Italia sono nati, infatti, progetti volti a sensibilizzare l’opinione pubblica e gli allevatori affichè si comprendesse il reale valore naturale, sociale, economico e turistico del ritorno del canide più temuto dei monti. In Piemonte, ad esempio, è nato il “Progetto Lupo”, che coinvolge un centinaio di persone, appassionate, tra ricerca e monitoraggio dei branchi. Sono i pastori i più difficili da convincere. Lo zoccolo duro sono coloro i quali allevano ovini, pecore per la precisione: quando il lupo attacca, è devastazione. Le capre, invece, sono meno timorose, sono guardinghe e talvolta affrontano, mettendolo in fuga, il predatore.

Marco Albino Ferrari, direttore della rivista Meridiani Montagne, ci racconta in una sua pubblicazione, dello strano rapporto tra uomo e lupo, tra pastore e predatore. Cristiano Peyrache, della Valle di Bellino, ha sempre, fin dalla fanciullezza amato ed allevato le pecore. Adora le pecore da lana, e dalla vendita di questa trae profitto. Mentre gli inverni trascorrono quieti a basse altitudini, all’arrivo della primavera, con il clima mite e la nascita di nuova erba su nei pascoli, inizia la migrazione, e la vita si sposta in alto, fino agli inizi dell’autunno, o, almeno, finché il tempo concede. Fin quando il lupo non c’era (perché sterminato dalla mano umana), le greggi potevano pascolare liberamente un po’ ovunque, tra altopiani e declivi dei monti. Quando il predatore è tornato, tutto è cambiato. I pastori, da quindici, in quella valle, si sono ridotti a tre. Si sono ridotte anche le dimensioni delle greggi, è cambiato anche il modo di gestire l’allevamento ed il pascolo. Sono nati recinti, è arrivato il filo elettrificato, sono tornati i cani da pastore. Quando escono, qualcuna muore. Cristiano racconta: “Andare in montagna non è come prima”. E’ indubbio, le cose cambiano se cambia anche l’equilibrio. La sfida, quella vera, è crearne uno nuovo, di equilibrio. E’ nato, ad esempio, il Premio Pascolo Gestito. Si premiano i pastori meglio organizzati, si promuove l’uso di bivacchi tecnologicamente accessoriati, con recinti elettrificati e con sistemi di sorveglianza altamente sviluppati. Quando però i finanziamenti iniziano a scarseggiare, e i rimborsi risultano non essere soddisfacenti, ecco che si può sperimentare qualcosa di differente. Sono gli studiosi a entrare in scena: presentano e diffondono la cultura della coesistenza, la nuova e probabilmente migliore soluzione. Purtroppo la gestione del problema diventa ancor più complessa, per mano dell’uomo. Il fenomeno più pericolo che affligge le nostre montagne, per diversi aspetti, è il randagismo. I cani, che spesso attaccano le pecore (o gli altri animali a pascolo), concorrono al lupo, essendo anche più pericolosi: non temono l’uomo, non hanno timore nell’avvicinarsi agli agglomerati urbani, e non c’è modo di distinguere ad un primo sguardo l’attacco del lupo da quello del cane. Nel Parco Nazionale della Maiella si sta sperimentando una soluzione: invece del rimborso monetario, non gradito dal pastore, si allevano greggi affinché si possa restituire all’allevatore privato d’un capo, un sostituto perfetto, è il progetto “Il lupo riporta la pecora”. Le soluzioni ci sono, bisogna solo aguzzare l’ingegno e tentare. In Campania, sui massicci montuosi del Partenio e dei Picentini, il lupo c’è. Nel 2012 ne parlò anche il quotidiano Repubblica: il lupo è tornato. Sono tornati, però, anche i bracconieri, e le morti. Sicura è la presenza di nuclei riproduttivi sui Monti Picentini, tra Avellino e Salerno, e appare esservi certezza della presenza di qualche esemplare, in dispersione oppure in piccoli branchi, anche sul Partenio (leggi anche: Sulle orme del Lupo), tra Avellino, Benevento e Napoli. Molti si domanderanno del perché è necessario occuparci di questo animale tornato a popolare la terra che da lui prende il nome, l’Irpinia. Report della Forestale, datati 2012, parlano di carcasse di lupo rinvenute nel Sannio, crivellati di colpi di fucile oppure avvelenati. Altri sono stati i ritrovamenti di corpi senza vita, nelle aree di Avella e nei pressi del Parco Regionale del Partenio. Cronaca diversa giunge, invece, da Montella. Mario Kalby, naturalista, allertato dalla Forestale, su segnalazione di due boscaioli, raggiunse un lupo ferito. L’animale, recuperato, fu poi curato e accudito, fino alla successiva liberazione, dal veterinario Sabatino Troisi. Anche nel resto d’Italia, per fortuna, accadimenti analoghi, carichi di positive speranze, si sono succeduti. Uno in particolare attirò l’attenzione dei media nazionali, fu il caso del lupo Ligabue. Il lupo, ribattezzato con il nome del cantante emiliano, fu rinvenuto in condizioni particolarmente drastiche, di denutrizione, a pochissimi chilometri da Parma. Nel 2004, Patrizia Pizzorni fu chiamata ad intervenire. Un grosso cane stava zoppicando, poi crollò non lontano dal ciglio stradale. Quando la volontaria intervenne, scoprendo che quella bestia non era un cane, ma un lupo, restò tanto emozionata da serbare il ricordo con gelosia e affetto. Furono attivate le procedure di recupero dell’animale, e tutto andò per il verso giusto. Quella creatura fu chiamata dalla soccorritrice Ezechiele, ma con il diffondersi della notizia, l’arrivo della stampa, anche il nome cambiò, divenendo Ligabue. I ricercatori, dopo averne registrato i dati, lo identificarono come M15 (quindicesimo lupo maschio a essere stato trovato), e i monitoraggi satellitari sugli spostamenti dell’esemplare continuarono: dopo qualche mese Ezechiele, o Ligabue, o M15 si aggirava per il Parco dei Cento Laghi. Purtroppo di questo lupo non si può narrare una storia a lieto fine, i suoi spostamenti aiutarono i ricercatori a capire come gli esemplari in dispersione si muovessero, M15 percorse circa cinquecento chilometri (mille tenendo conto le digressioni e i cambi di direzione), mostrando la strada percorsa dai lupi in partenza dall’Appennino per giungere fin sulle Alpi. Circa un anno dopo fu comprovato che M15 avesse creato un nucleo con F70. M15 fu trovato morto pochi giorni dopo in Valle Poesio, probabilmente ucciso da un maschio Alfa dominante, avendo attraversato il confine invisibile che segna l’area del branco. Oggi, invece, valori decisamente più importanti fanno ben sperare, contando all’incirca 1300 esemplari di lupo nella penisola. Sul massiccio del Partenio, come dichiara anche l’Ente Parco, sicura è la presenza di qualche esemplare (probabilmente in dispersione), mentre è tra i Monti Picentini che si fa certa la presenza di nuclei stabili. La presenza di lupi in queste aree ha valore ben superiore a quanto si possa immaginare: attrattiva turistica per gli amanti della natura, ma ancor più “collante” tra le popolazioni del Pollino e quelle d’Abruzzo. Viadotti naturali permettono lo scambio genico, aumentando le chance riproduttive e rinsaldando le differenze genetiche. Il mammifero in questione, poi, è di supporto nel contenimento di quelle specie che, prive di predatori naturali, hanno finito con il popolare eccessivamente le aree boschive: cinghiali, ad esempio. Il cacciatore, ovvero il lupo, opera una scelta quando preda: sceglie gli esemplari più deboli e facili da catturare, incrementando la selezione naturale della specie predata. La sua importanza non si esaurisce così, essendo specie protetta, tentando di salvaguardarne lo spazio vitale, inevitabilmente si finisce con il proteggere (effetto ombrello) anche specie meno affascinanti, ma non meno a rischio, o meno importanti. Purtroppo, a mettere a rischio la sopravvivenza del lupo è il fenomeno assai diffuso del randagismo. Sono, infatti, proprio i cani a poter metter la parola fine al Canis Lupus Italicus. L’ibridazione prodotta con l’accoppiamento tra lupi e cani portano alla perdita del patrimonio genetico originario, imbastardendo la specie, creando ibridi che non temono l’uomo, potenzialmente pericolosi sia per la specie lupo che per chi, oltre agli animali, vive il bosco e la natura. Molte sono le opere necessarie alla salvaguardia di uno dei mammiferi più belli, affascinanti e rari d’Italia, alcune già messe in opera, ma molte altre vanno intraprese.

                                                                                                       

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