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Irpinia in crisi: cinquemila posti di lavoro in meno in dieci anni

19.05.2017, L’inchiesta di Flavio Coppola (dal sito Orticalab.it)

Spunti di riflessione  pubblicati il 27 marzo in occasione della visita  del presidente nazionale di Confindustria, Vincenzo Boccia, alla sede di Acca Software a Bagnoli Irpino.

Ocm-NuscoOltre 5.000 posti di lavoro persi negli ultimi 10 anni, decine di fabbriche chiuse in tutta la provincia ed interi comparti rasi al suolo. E’ questa la fotografia più drammatica, ma fedele, dell’industria in Irpinia dall’inizio della spaventosa crisi economica esplosa sul finire del 2007.

Decisamente molte più ombre che luci, insomma, in una provincia che aveva puntato molto sull’industria pesante negli anni immediatamente successivi al terremoto del 1980, e che oggi – al netto di poche ma significative eccellenze – fa quotidianamente i conti con il bollettino di guerra del lavoro che non c’è più.

«Innovazione e finanza», questi i fili conduttori del confronto, declinati alla luce di una realtà in cui, per ogni azienda capace di coniugare fattivamente l’importante binomio (Ema, Altergon, Acca Software, Zuegg, Ferrero) ve ne sono almeno 10 stritolate dalle maglie del credit crounch bancario, e da un sistema complessivo di servizi alle imprese – dalle infrastrutture alla zavorra delle pubbliche amministrazioni – che stanno generando un vero e proprio deserto. Il tutto, non di rado, con responsabilità evidenti da parte di un tessuto imprenditoriale non sempre all’altezza.

Meglio delle parole, lo testimoniano i numeri sulle chiusure aziendali che hanno interessato il manifatturiero in Irpinia negli ultimi 10 anni.

L’ecatombe industriale di Pianodardine parte nel 2008. Il nucleo industriale di Avellino perde i cablaggi per le auto made in Fiat della «Cablauto», poi gli stampi automobilistici di «Tecnostampi», gli accessori per i mezzi di trasporto e gli elementi per carrozze ferroviarie sfornati da «Sguinzi» e «Saira», e i manufatti in cemento industriale di «Prefab.i». Lo tsunami che ha nella crisi finanziaria di quegli anni soltanto il suo epicentro travolge pesci grossi e pesci piccoli. Nel secondo caso, a farne le spese sono realtà quali «La Stampa» di Montefredane, «Punto Netto» di Pratola Serra, «Stellieri» e «Itavex» di Avellino. Nel primo, paga pesantemente dazio pure la Fma di Pratola Serra. Quello che da lì in poi sarà ribattezzato come il «Gigante malato» dell’industria in Irpinia viene colpito duramente dalla perdita della commessa da 300.000 motori all’anno della «General Motors». Partono gli anni della cassa integrazione.

Contemporaneamente, spariscono le ditte interne impegnate nello stabilimento. Un dato appare eloquente: ad inizio 2008, in Fma lavorano circa 1969 addetti. Nel 2013, la cifra risulta assottigliata di circa 200 unità. I primi a perdere il posto, nel 2011, sono i 30 operai a termine, seguiti, nei mesi successivi, da circa 50 tute blu, molte delle quali trasferite. Poi tocca alle ditte esterne: si comincia con la «Ceva». Il 2012 si apre invece col mancato rinnovo contrattuale dei 98 addetti «Astec», impegnati sulla manutenzione dei macchinari. A chiudere, l’internalizzazione dei servizi di logistica, svolti da 32 maestranze «Logiservice» e da altre 35 targate «De Vizia».

Superati gli anni drammatici della recessione nazionale, il copione in Irpinia resta lo stesso. Tra il 2013 e il 2016 chiudono i battenti numerosi altri stabilimenti, per centinaia di lavoratori lasciati a casa.

E’ il caso delle due fabbriche «IS&M», addette alla produzione di molle per elettrodomestici e veicoli, a Pianodardine e Luogosano, per 70 dipendenti. Tocca poi alla «Mondial Group» di Montemiletto, specializzata in frigoriferi per altrettanti operai, ed alla «Ocm» Nusco, 100 dipendenti, ed una produzione di pregio in componenti per macchine di movimento terra. Nel frattempo, a Pianodardine, l’«Asm» riduce il personale complessivamente di 130 unità, mentre l’«Elital», di Massimo Pugliese – siamo agli ultimi giorni – fallisce definitivamente e licenzia altri 62 operai.

Interi settori finiscono per risultare quasi azzerati, come il comparto tessile dell’Alta Irpinia, o profondamente ridimensionati, come il Polo della Concia di Solofra. Entrambe le crisi industriali partono dagli anni ’90, quando cominciano le aperture sui mercati internazionali ai Paesi in via di sviluppo. Ma è nei primi anni del 2000, fino al 2008, che si consuma il disastro. Emblematico, a Solofra, il fallimento della conceria «Albatros», con circa 400 dipendenti tra addetti interni e stagionali, mentre a Calitri si consuma la paradossale vicenda della Cdi di Gianni Lettieri. In entrambi i casi, le stime sono drammatiche: 2.000 lavoratori in meno per comparto, con il tessile nell’Alta Irpinia praticamente cancellato, e la concia di Solofra letteralmente dimezzata.

Il conto, in tutto, fa almeno 5.000 posti persi. In gran parte padri di famiglia, spesso over 40 e 50. Terminati gli ammortizzatori sociali, finiscono per lo più a reddito zero. Non a caso, il grido d’allarme del sindacato è particolarmente vibrante.

Franco Fiordellisi, segretario generale della Cgil di Avellino, si rivolge direttamente al presidente nazionale di Confindustria, Vincenzo Boccia: «Si parla di «Fabbrica 4.0», ma chiedo a Boccia che ne sarà delle imprese se non saremo in grado di assicurare posti di lavoro stabili. Come intende far progredire l’accordo che abbiamo sottoscritto tutti insieme? E La Regione come pensa di gestire il Progetto Pilota dell’Alta Irpinia? Ad oggi – sentenzia – i numeri sono drammatici».

Gaetano Altieri, segretario provinciale della Uilm di Avellino e Benevento, è netto: «Al netto di qualche eccellenza, l’industria in Irpinia ha visto di fatto saltare il proprio indotto. Le fabbriche e i posti persi non sono stati rimpiazzati da nuove iniziative industriali. Mancano del tutto politiche di sviluppo del Governo e della Regione che riescano ad attirare investimenti ed imprenditori in Irpinia e nel Mezzogiorno».

                                                                                                       

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