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L’ amore ai tempi di Her

19.04.2017, Rubrica “Fettine dalla CineMacelleria”, di Noemi Dell’Angelo (da “Fuori dalla Rete” – Aprile 2017, Anno XI, n.2)

her-filmIn un mondo dove scrivere lettere d’amore è oramai pratica desueta e demodé, dove lo sforzo massimo profuso consiste nel digitare meccanicamente frasi brevi con gli smartphone per “comunicare” alla nostra lei (lui) aggiornamenti di stati e azioni in tempo reale, Spike Jonze, uno dei migliori registi visionari contemporanei, mette in scena un mondo non troppo irreale e lontano dal nostro, e lo fa nella sua ultima fatica cinematografica  (Lei – Her, 2014).

Da frasi veloci, scritte su email, clienti paganti riassumono in fretta il sentimento da trasmettere, e Theodore (protagonista interpretato da Joaquin Phoenix) è lì, che tira fuori un mondo romantico fatto del loro primo incontro, del loro primo bacio, del loro amore. Theodore è uno scrittore. Scrive lettere d’amore su commissione, di qualsiasi tipo d’amore. Lavora con una tale empatia da essere il migliore nel suo campo, ma al di fuori del suo ufficio, nella vita vera, vive praticamente solo, tenendo a debita distanza anche i pochi amici che ha. Non è un anaffettivo, ha solo paura. Paura di amare di nuovo.

Quest’ uomo così malinconico e nostalgico trova rifugio in un nuovo OS1, un sistema operativo, che è molto più di un programma: è un essere con una coscienza, con dei sentimenti: Samantha.

La voce di Samantha ci accompagna nella storia, e, nel buio della stanza, facciamo anche noi l’amore con quella voce sensuale e morbida, dimenticandoci, come Theodore, che è solo una voce.

Nello spettatore si compie il gioco romantico e decadente che si avvera nella mente di Theodore. Samantha, una “donna” che lo ascolta, che ride, lontana dall’imperfezione di un essere umano. Eppure gradualmente iniziamo a cogliere la distanza, fisica e materiale, tra un OS e un essere umano.

La solitudine, sentimento predominante nel film, che è sottolineata dal regista soprattutto negli spazi aperti,  mi riconduce a una scena di Shame (Steve McQueen, 2011), in cui Brandon, il protagonista, in metropolitana  guarda una donna seduta dinanzi a lui. Quella è seduzione, lo sappiamo, ma è reale, è fisica.  Anche Theodore usa spesso la metropolitana, ma non si guarda mai attorno. Il suo sguardo non vaga mai alla ricerca di un altro sguardo. Brandon usa la tecnologia e il sesso come palliativo alla propria carenza d’amore per mettere a tacere i propri demoni. Theodore usa Samantha. Due solitudini, due carenze d’amore, due differenti “antidoti”, ma sono davvero così diversi Theodore e Brandon?

Una fotografia  animata da colori caldi e vintage, ci fa immaginare  un futuro che in realtà è già il nostro presente; i costumi in particolare diventano i protagonisti di questo contrasto con la tecnologia in progresso.

Jonze riesce nei movimenti di macchina a dare un senso alla narrazione. La macchina è tenuta all’altezza del viso come se l’occhio della macchina da presa fosse l’occhio di Samantha, avendo la sensazione della sua presenza, ma quando si crea la frattura la regia cambia: i primi piani si lacerano in campi medi e lunghi rivelando la solitudine del protagonista.

Il regista ha il coraggio superbo di andare fino in fondo a questa narrazione apocalittica celata da una storia romantica, senza mai scadere nello stereotipo, arrivando ad un epilogo magniloquente.

La magia e il paradosso dell’amore di “Lei” è che togliendogli carne e materia gli si dà sostanza. La magia e il paradosso dell’amore di “Lei” è che parlando dei suoi limiti ne scopriamo l’infinito.

È arrivata una notifica. Facciamo scorrere il dito sullo schermo, condividiamo la nostra emozione dopo aver visto “Lei” su un social network , senza accorgerci che stiamo già da un po’ con Samantha.

                                                                                                       

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