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La misura del tempo nella civiltà rurale

14.01.2014, Articolo di Aniello Russo (da “Il Corriere”)

La vita odierna è indubbiamente regolata, anzi condizionata dal tempo a tal punto che ne siamo divenuti schiavi. Disponiamo nella giornata precedente le faccende da compiere l’indomani; solo in ultimo inseriamo a intarsio quelle incombenze che invece a ben vedere sono essenziali o di maggior conto delle altre privilegiate dall’orario fisso e dalla priorità nel corso del giorno. E così la visita alla madre anziana che vive sola a casa o in un ospizio e ci attende da giorni, si incastona tra l’orario rigoroso di ufficio e l’ora impellente del pranzo, oppure tra un servizio urgente alla banca e l’altro alla posta di imminente scadenza. Sicché non di rado capita che la visita al familiare salta per il dilatarsi del tempo dedicato all’incombenza precedente; e la mamma che aveva preparato l’incontro con il figlio vede vanificarsi un appuntamento a cui da giorni aveva dedicato ogni sua premura e tutta la sua ansia affettiva.

Le ore canoniche del giorno

Tutt’altra la vita nella civiltà contadina, quando si faceva a meno dell’orologio e le persone care erano il primo pensiero. La misura del tempo allora era sempre empirica e poco precisa, al contrario di oggi che si tiene conto pure dei minuti e dei secondi. Durante il giorno il tempo si misurava tenendo conto dell’altezza del sole, durante la notte della posizione della luna. Il sole a mezza costa indicava l’alba nella prima parte della giornata, il crepuscolo nella seconda. La luna in cima alla montagna indicava con il suo tramonto l’alba; con il suo sorgere, il crepuscolo.

In tutte le nostre comunità il termine della giornata era segnato al tramonto con i tocchi dell’Avemaria. L’ora era detta ventiquattore, cioè la ventiquattresima ora della giornata, dopo la quale cominciava il nuovo giorno. Questa usanza risale al medioevo. Nella giornata queste erano le ore più importanti, segnalate dal suono delle campane: il mattutino, annunziato da nove tocchi (a Senerchia) o quindici battuti in tre riprese (a Bagnoli). Era l’alba, l’ora della sveglia dalle cinque alle sette, a seconda delle stagioni. Prima di recarsi nei campi i contadini sentivano la messa, varcando la soglia delle chiesa dopo aver lasciato gli attrezzi poggiati al muro esterno. L’ora delle messa delle undici era il segnale per la massaia di mettere la caldaia sul fuoco; con il mezzogiorno, l’ora della pranzo, metà della giornata era andata via. Ventunora era annunziato con ventuno tocchi tre ore prima del tramonto. Ventiquattore era il crepuscolo, l’ora della morte di Cristo, perciò era annunciata con trentatré tocchi quanti gli anni vissuti da Gesù. L’ora variava a seconda della stagione, dalle 16:00 del 21 dicembre, il giorno più corto, alle 20:30 del 21 giugno, il giorno più lungo; era questa l’ora del ritorno dei contadini dalla campagna, il momento del raccogliersi della famiglia attorno al tavolo per la cena.

Il tempo-lavoro

Nei casolari rurali e nei piccoli paesi il tempo scorreva con estrema lentezza e con estenuante monotonia, in sintonia tuttavia con l’alternarsi delle ore della giornata e con il succedersi delle stagioni. Il contadino non portava fretta perché la terra non ha fretta di germogliare e di recare a maturazione i suoi frutti; insomma, come l’erba che spunta e cresce inavvertitamente, senza cioè dare nell’occhio. Ai lunghi e gelidi inverni succedevano lentamente le lunghe giornate afose dell’estate; al lungo periodo di riposo invernale si alternava l’altrettanto lungo periodo delle estenuanti fatiche estive. Dopo il gelo invernale, il contadino seguiva il crescere del grano controllando i nodi che segnavano man mano il gambo, prima che sbocciasse la spiga.

L’organizzazione del tempo-lavoro in campagna avveniva secondo il calendario rurale, regolato dai cicli dei lavori. L’avvicendarsi delle stagioni, come pure l’alternarsi del giorno con la notte, dettava i ritmi e le pause di ogni attività. Il contadino e il pastore regolavano il tempo del lavoro e il tempo libero secondo un ordine naturale. I lavori nei campi hanno indubbiamente determinato la datazione delle feste principali, fissate in rapporto all’inizio o al culmine o al temine delle colture; la trebbiatura, per esempio, in molti luoghi del territorio irpino coincide con la festa dei covoni associata alla festività dell’Assunta o di San Rocco.

Alcuni informatori serbano memoria di un calendario rustico: in una zucca svuotata il contadino poneva all’inizio dell’anno 365 ceci (o fagioli): ogni giorno ne toglieva uno fino a che, svuotatasi del tutto, la zucca avvertiva che l’anno era finito e ne cominciava uno nuovo. Al prelievo del settimo cece il contadino sapeva che era giunta la domenica, il giorno del riposo e della celebrazione della santa messa. Per conoscere il giorno delle Palme e della Pasqua, ogni anno la moglie del contadino si faceva indicare dal parroco quanti ceci doveva prelevare dalla zucca, a partire dal primo gennaio.

Il tempo dell’amore

Per significare un’azione di breve durata si indicava il tempo che uno sputo impiega per prosciugarsi. Questa medesima espressione la usava la madre con la figlia adolescente che usciva, in tono perentorio per portarle premura. Raramente la madre le concedeva il permesso, ma quando lo faceva, sputava in terra e prima che la figlia varcasse la soglia di casa, le diceva: “Devi essere di ritorno prima che il mio sputo si secchi!” Lo sputo, poi, aveva pure un valore analogico: in quanto di forma circolare, simulava l’occhio della madre che l’avrebbe seguita passo passo senza mai perderla di vista.

C’era poi la mezz’ora, il tempo concesso agli innamorati di stare insieme e amoreggiare; ma solo ai fidanzati in casa. Di solito l’appuntamento si realizzava al crepuscolo e terminava prima che facesse del tutto buio. L’incontro dei due avveniva a distanza: lei affacciata al balcone e lui in piedi in strada con il naso all’insù; e il loro dialogo era pubblico, privo delle effusioni caratteristiche di due innamorati. E parlavano del tempo, del lavoro, delle piccole vicende paesane. Il sorriso e la dolcezza delle parole palesavano comunque la tenerezza dei loro cuori. Da questa consuetudine amorosa era sorta l’espressione temporale: il tempo di una mezz’ora… e sarò di ritorno!

I giorni, poi, venivano indicati spesso con il nome del Santo o di una festività o del mercato settimanale oppure collegati a un evento eccezionale.

Altre misure del tempo

Le persone povere di cultura scolastica, ma ricche di esperienza, per la misura del tempo adoperavano locuzioni di origine antica trasmesse per via orale fino a qualche decennio addietro.

L’osservazione di alcuni fenomeni naturali (la luna, il sole, la pioggia, la nevicata, il vento, il lampo) aveva suggerito come scandire il tempo e regolarsi su di essi. Certe locuzioni servivano per esprimere in modo palese a tutti la durata di un’azione. Si adoperava anche come unità di misura il tempo che si impiegava per compiere un’attività o svolgere una faccenda, di durata breve o lunga che fosse.

Per indicare uno spazio di tempo breve si usavano espressioni come queste: Nun li rivu tiempu r’ jatà (non gli concesse il tempo di fiatare), int’a na vutàta r’uocchi (in un batter d’occhi, nel tempo che si impiega nel voltarsi), mancu lu tiempu r’ rici “Maronna, aiuteme!” (neppure il tempo di invocare la Madonna), nun tengu tiempu r’ me fa’ la Croci (non ho tempo neanche per farmi il segno della croce).

Per segnare uno spazio di tempo medio (una mezz’ora o poco più), si adoperavano le preghiere come unità di misura: lu tiempu r’ rici lu rosariu (il tempo di recitare il rosario), lu tiempu r’ na messa cantata (il tempo di una messa solenne, circa un’ora); ma anche: il tempo che impiega l’acqua per bollire ecc.

Per significare un tempo di lunga durata si usavano varie espressioni: luongu quant’a la quarèsema (un tempo lungo e penoso quanto dura la quaresima, cioè quaranta giorni, che erano fatti di digiuni e di astinenze); p’ fa’ na cosa ra nienti ngi mitti na semmàna (per portare a termine anche una piccola cosa impieghi una settimana!). Infine, per indicare la fulmineità di un’azione: cumm’a nu lampu, cumm’a lu vientu; oppure si ricorreva a locuzioni, come la seguente: squaglià cumm’a la nevu r’ marzu (scomparire di colpo, come d’un subito si scioglie la neve di marzo).

                                                                                                       

1 Commento »

  • nello scrive:

    Un articolo descrittivamnte perfetto e di precisone chirurgica, che impone a tutti noi una profonda riflessiione su quanto si è perso in calore umano ed affettività ,simboli e pilastri della vita che fu-Oggi siamo oggetti, travolti dalla velocità delle situazioni, in cui tutto ci è sfuggito dalle mani , una corsa per strade che portano al nulla ,un benessere ,che noi umani crediamo di raggiungere , mancante degli elementi essenziali del vivere: calore, amore, dove per i figli i genitori sono un peso !!. Alla fine dei nostri giorni,ci troveremo soli e mancanti di affetto, al che, non ci resta che rimpiangere i giorni che furono,che davano il senso del vivere e che ripagavano i genitori dei sacrifici fatti per i figli da cui veivano colmati di affetto accompagnandoli con amore fino alla fine dell’esistenza terrena- !!! che si può dire a questo articolo toccante e perfetto solo un bravissimo !!! ad Aniello Russo ……..

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