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L’Italia che tifa contro

Massimo Gramellini, La Stampa (22.05.2010)

Stasera milioni di italiani saliranno sull’apposito trespolo montato davanti al televisore e, brandendo idealmente un piatto di crauti, tiferanno contro la squadra del loro Paese impegnata a contendere la Coppa dei Campioni (o come diavolo si fa chiamare adesso) al Bayern di Monaco. Milanisti gelosi, romanisti delusi, juventini offesi. Tutti bavaresi per una notte, in attesa di inondare di birra le piazze d’Italia per festeggiare la non-festa dei detestati rivali. Bavaresi e autolesionisti, dal momento che una sconfitta dell’Inter ridurrebbe il numero delle partecipanti italiane alla prossima edizione della coppa. Odio, cosa non si fa per te. Lo schieramento dei non-nerazzurri è naturalmente assai più variegato. I cuori di Lazio e Toro, per esempio, batteranno all’unisono con quelli interisti al solo scopo di guastare la serata a romanisti e juventini (qualche settimana fa i laziali ne hanno offerto una convincente dimostrazione dal vivo). Si chiama tifo di rimbalzo: il nemico del mio nemico è mio amico. Ci sarebbe già abbastanza materiale per interessare qualche psichiatra, se non fosse che le dinamiche contorte della passione calcistica si riproducono fedelmente nella vita sociale e quotidiana. Alle elezioni si vota contro l’avversario più che per il proprio candidato. E anche a scuola, in ufficio e fra le mura di casa la competitività si traduce in una forma sottile di goduria per gli insuccessi e le umiliazioni altrui, mimetizzata sotto lo strato ipocrita della solidarietà e dello «spirito di squadra». Succede ovunque, ma in Italia un po’ di più. Questo è l’unico Paese al mondo – diceva Montanelli, che ne aveva girati parecchi – in cui quando vedi passare una Ferrari non pensi al modo per comprartene una, ma a quello più rapido per tagliarle le gomme. Non è solo invidia o vittimismo (mi hai procurato un torto e ora godo all’idea che ne subisca uno tu). C’entrano la faziosità e il sadismo di cui è intriso l’animo umano: basta accendere la tv a qualsiasi ora per incontrarlo. I tedeschi la chiamano «schadenfreude», gioia per le disgrazie altrui. Noi non abbiamo una parola per descriverla, solo dei gesti. La differenza è che gli altri popoli si vergognano di esibirla. Qui invece ne andiamo orgogliosi e contrabbandiamo l’esposizione dei nostri succhi gastrici per manifestazione di goliardia. Attenti, però: gli italiani sono imprevedibili e inafferrabili persino nei loro umori, come ben sa chiunque abbia avuto la sventura di firmare accordi con noi per poi vederci finire le guerre dalla parte opposta a quella in cui le avevamo incominciate. Mi è successo di seguire la semifinale dei Mondiali tedeschi del 2006 accanto a un elettore leghista. Durante l’inno di Mameli si trasferì al gabinetto e per tutta la partita non smise mai di tifare Germania contro l’Italia, inneggiando alla superiorità atletica dei padroni di casa. Poi al gol di Grosso si zittì. Appena Del Piero mise a segno quello del raddoppio, scattò dal divano e – più Alberto Sordi che da Giussano – assestò le braccia nel classico gesso dell’ombrello, gridando addosso al televisore: «Tedeschi? Tiè!».

                                                                                                       

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