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Masaniello e le lenzuola di Ventriglia

Il Corriere della Sera, 03 luglio 2010 – di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

Ha fatto crac pure ‘o babà Vesuvio. Il tracollo della celeberrima pasticceria Scaturchio, messa all’asta, ha segnato un anno che già era nato male. Niente da dire sui nuovi padroni: erano già proprietari dei ristoranti «Palazzo Petrucci» e «Mimì alla Ferrovia » e godono fama di professionisti coi fiocchi. Lo schianto della bottega dolciaria sotto una montagna di debiti, valutati dal Sole 24 Ore in 9 milioni, rappresenta però un piccolo trauma epocale. La «Scaturchio», dove assicurano che «tutto sarà come prima, stessa frutta candita, stessa pasta di mandorle, stessa pasta reale…», non era solo una pasticceria: era una leggenda.

Suo era il brevetto del «Ministeriale», inventato con quel nome («quanta burocrazia! Pare un affare ministeriale! ») in onore di una diva del café chantant, Anna Fougez, che all’anagrafe faceva Annina Laganà Pappacena. Suo il brevetto del «babà Vesuvio », a forma del vulcano. Sue tante altre ricette celeberrime. Tutto spazzato via da un degrado gestionale da spingere il curatore fallimentare a sbottare: «Non ho trovato alcuna documentazione contabile a eccezione dei libretti di lavoro». Spiega il rapporto appena edito dalla Banca d’Italia, in verità, che è tutta l’economia campana a versare in condizioni allarmanti. Una riduzione del Pil del 5,4%, superiore di un punto perfino a quella del resto del Sud. Un crollo dell’export del 16,9%. Un «forte peggioramento della situazione occupazionale» riassumibile in tre dati: 1) E’ campana la metà delle persone che hanno perso il lavoro nel 2009 nel Mezzogiorno. 2) Il tasso dei disoccupati è schizzato al 12,9% contro il 7,8 italiano (e il dossier sottolinea che in realtà sarebbe al 18% tenendo conto dei cassintegrati e di quanti non cercano più lavoro perché scoraggiati). 3) Il 38% del calo occupazionale è concentrato nell’industria. Un panorama da brividi.

Tanto più che parallelamente «tra il 2006 e il 2008, la spesa delle Amministrazioni pubbliche locali campane è aumentata, al netto degli interessi, del 4,4% in media all’anno». Di più: alla fine del 2009 il debito di queste amministrazioni «è ancora cresciuto raggiungendo i 13,1 miliardi (erano 12,1 alla fine del 2008) e il 13,9% del Pil regionale, circa il doppio rispetto al complesso delle altre regioni italiane ». Di più ancora: i fornitori dello sgangherato sistema sanitario sono così convinti che la Regione ci metterà una vita a pagare i 5 miliardi abbondanti che deve loro, da aver ceduto a terzi parte di questi crediti, pari a «2,2 miliardi, oltre il 28% del totale nazionale». Un disastro. Che spinge la destra a scaricare tutto sul «catastrofico Regno Bassoliniano». Parole pesanti. Velenose. Basate su tante accuse. La gestione della Sanità denunciata da Bankitalia. La distribuzione di «birbe» (il tozzo di pane quotidiano, nell’antico linguaggio della fame) a migliaia di clientes. Come i 3.500 sottoccupati coinvolti per 600 euro il mese nel progetto «Isola» e mandati a distribuire casa per casa sacchetti per la raccolta differenziata anche dove la raccolta differenziata non c’è.

Una scelta politica che ha coltivato una sventurata cultura del lavoro (assenteismo da record planetario: «per quel che mi danno, perché dovrei lavorare?») e gonfiato un’aspettativa che, tradita infine dal governo, ha spinto due settimane fa i rivoltosi a bloccare la stazione centrale, incendiare cassonetti e interrompere la messa in Duomo. Per non dire del tormentone costosissimo della «monnezza», che fece svergognare Napoli sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo e che ancora non è stato risolto, a dispetto dei trionfi berlusconiani, se è vero che montagne di rifiuti continuano a rovesciarsi a ondate nelle strade e che i giornali raccontano che a Scampia, «i narcos, piuttosto che spingere la gente a protestare, organizzano per così dire la raccolta della spazzatura quando questa arriva a ostruire le strade » e «così facendo, non viene richiamata l’attenzione delle forze dell’ordine».

E come giustificare la lentezza biblica («E’ di tutta evidenza l’enormità del ritardo», secondo la Corte dei conti) del progetto di risanamento dell’area industriale di Bagnoli, che solo in queste settimane, un secolo esatto dopo l’apertura dello stabilimento siderurgico e venti anni dopo lo spegnimento del grande altoforno, vede profilarsi i primi risultati concreti? «A Bagnoli— ha spiegato Rocco Papa, già vice di Rosa Russo Iervolino—ognuno immaginava di realizzare la propria utopia. Risultato: tutto si è ingolfato». Cosa sia successo lo ha raccontato Antonello Caporale su Repubblica (che certo di destra non è) a proposito dei soldi arrivati tra il 2000 e il 2007: 32 miliardi di euro da Bruxelles, 14 da Roma e 5 dai privati per un totale di 51. Un fiume amazzonico di soldi. Sperperati in cose talora demenziali. «Decreto dirigenziale n. 386, “Progetto ponte tra l’Eccellenza Campana e le Potenzialità russe”. 500 mila euro di spese suddivise così: 50 mila a consulenze specialistiche, 40 mila a studi e indagini di mercato, 25 mila a interpretariato e traduzioni, 215 mila a spese per fiere e workshop, 50 mila per il classico sito web.

Poi viaggi, comunicazione, eccetera. In sintesi: il nulla ». Ancora: «Decreto dirigenziale n. 456: “DolCina, progetto per il lancio di prodotti liquoristici della provincia di Benevento nel mercato cinese”… » E poi 70 mila euro per lo studio «Elementi di memoria storica della Castagna di Montella». E 250 mila per un volume più dvd dedicato a Giustino Fortunato, il grande meridionalista che certo si chiederebbe: ma è questo il modo di gestire il Meridione? L’ex presidente di Confindustria Antonio D’Amato, titolare della Seda, «rarissimo se non unico caso di multinazionale con cuore e cervello a Sud» e più precisamente ad Arzano, il «Nordest napoletano» caratterizzato da folti cespugli di aziende e aziendine che lavorano più o meno sommerse, risponde di no. A Paolo Grassi del Corriere del Mezzogiorno, però, ha spiegato che è troppo facile scaricare tutto su un capro espiatorio e pensare che tutto si risolva magicamente col federalismo: «Questa riforma non ha niente a che vedere né con il rilancio economico del Paese e del Meridione, né con il rigore. Di più, penso che renderebbe ancor più pesante la dinamica dei conti pubblici, rischiando di farli letteralmente esplodere. Se poi aggiungiamo che non unisce ma spacca l’Italia…». Esagerato? «Non è un rischio, è una certezza. Del resto sono gli stessi fautori della riforma, e mi riferisco ai leghisti, che dicono chiaramente (…) che il loro obiettivo è di disarticolare l’Italia». Parole dure.

Anche sul governo di quel Berlusconi che gli offrì un ministero e pensò a lui come candidato governatore: «Di solito il benaltrismo viene utilizzato per attaccare un governo che cerca di fare le cose. Lo si incalza, cioè, dicendo si dovrebbe fare ben altro. Qui invece viene utilizzato dal governo per non fare le cose. Invece di mettere mano alle riforme veramente necessarie si tirano fuori iniziative fuori contesto». Il governo non guarda al Sud? «Poco o niente. Ma questo è ovvio in un’Italia che da venti anni or centrodestra e centrosinistra, ci tengo a specificarlo, che cedono spesso e volentieri alle sirene del Carroccio…». E allora cosa fare: un partito del Sud? Per carità: «Lacererebbe ulteriormente l’Italia… ». La banca! «Ecco quello che ci vorrebbe: una vera Banca del Sud!», hanno strillato per anni in coro vari meridionalisti di vario colore. Finché Giulio Tremonti non ha deciso di accontentarli. Facendo sbottare Giuseppe Castagna, direttore generale del Banco di Napoli: «Siamo già noi la banca del Mezzogiorno e dei meridionali. Non credo proprio che un istituto di credito, pur se a forte vocazione pubblica, possa avere una presenza pari alla nostra. Forse solo i carabinieri sono più capillari di noi nel Meridione».

Uomo d’acqua, si vanta di avere nuotato da Napoli a Capri, da una sponda all’altra del Nilo e attraverso il Canale di Suez. Ma in particolare di aver partecipato alla maratona acquea Santa Fé-Coronda, sul Rio Paraná, in Argentina, a dispetto dei caimani. Che al Banco di Napoli avvertissero il bisogno di qualcuno capace di restare a galla tra i flutti e indifferente agli alligatori la dice lunga. La storia di quello che è stato il più importante istituto di credito del Mezzogiorno, infatti, aiuta forse a capire l’anima della capitale borbonica del Regno delle due Sicilie meglio di cento trattati di sociologia. A partire da un dettaglio nient’affatto secondario: un cortile interno. Nove porte, nove targhe, nove sigle diverse. «’O cortile ‘e sindacat’ », nel grande palazzo del Banco di Napoli in via Toledo, dirimpetto ai vicoli dei Quartieri spagnoli, non poteva avere nomignolo migliore. Su 7 mila dipendenti, i sindacalisti sono 800. Uno ogni nove. Abbondante.

Il triplo, in proporzione, di quelli del gruppo Intesa Sanpaolo del quale l’istituto di credito partenopeo oggi fa parte, che non raggiungono il 4%. Quella stessa proporzione, il 12% e passa, è immutabile da anni. Sono cambiati solo i numeri: una volta c’erano 13 mila dipendenti e 1.600 delegati. Un record planetario. Una sola differenza, forse, c’è: adesso i rappresentanti sembrano avere un po’ meno potere. Allora erano padreterni. Non si muoveva foglia che il sindacato non volesse. Promozioni, trasferimenti, nomine: tutto era subordinato al suo placet. I segretari delle organizzazioni facevano carriera, diventavano alti dirigenti, condizionavano le scelte aziendali. Dettavano legge, come quando nel 1990 accettarono un piano di esodi imponendo che per ogni padre pensionato venisse assunto il figlio: 500 padri in uscita, 500 figli in entrata. Poi sono arrivati i «lombardo-piemontesi». E il giocattolo, ahiloro, si è rotto. Per secoli che da queste parti avevano adattato i conti alla politica. A cominciare dalla rivolta di Masaniello nel 1647. Quando i quattro Banchi dei pegni, radici del «Banco» di oggi, vennero presi d’assalto dai ribelli. I quali dopo aver saccheggiato le dimore patrizie volevano impegnare gli argenti razziati: «Quanto mi date?». Per quieto vivere pagarono.

Quando la rivoluzione finì e i legittimi proprietari rivendicarono i beni loro sottratti, il colpo fu duro. E dura, tra guerre, epidemie, eruzione del Vesuvio, è stata tutta la vita della banca. Esposta ai capricci della sorte almeno quanto ai capricci dei Borboni. Per centinaia di anni i Banchi sono stati l’anima di una città che muore e rinasce continuamente. C’è un dettaglio che rivela tutto. Siamo nel 1983. Il governo di Bettino Craxi, nella convinzione che le banche siano orti di proprietà della politica, manda alla guida del Banco Ferdinando Ventriglia, potentissimo direttore del Tesoro e probabile depositario di alcuni dei segreti più scottanti della prima Repubblica, a cominciare dalla fantomatica lista dei 500 grandi evasori su cui si favoleggiò per anni. Com’è possibile, chiede Ventriglia, che il Monte dei pegni dell’istituto perda 9 miliardi di lire l’anno? Lo portano ai magazzini: montagne e montagne di lenzuola. Usate. Che riempiono tutto fino ai soffitti. Il valore minimo dei beni che si potevano impegnare era di 5 mila lire e le famiglie povere dei Quartieri, quando non sapevano come svoltare la giornata, si regolavano così. Impegnando le lenzuola. Che solo raramente andavano poi a riscattare. Una silenziosa e interminabile processione che si traduceva per il Banco di Napoli in una perdita secca: e chi te lo compra un lenzuolo usato? Narrano le cronache che Ventriglia decise di farla finita aumentando il tetto da 5 a 20 mila lire e che per il blitz attese Ferragosto. Non calcolò che i poveri dei «bassi» non ci vanno, in vacanza.

Come seppero, uscirono dai vicoli e riempirono via Toledo assediando minacciosi la banca. Dalla quale «’o Viceré» potè uscire solo a notte fonda. E scortato dalla polizia. Per capire cos’è il Banco bisogna andarci, a via Toledo. Che il marchese Alphonse-François de Sade descriveva come «superba» sia pure «fetida e sudicia» per le botteghe di macelleria che invadevano la strada e «il ritmo tumultuoso e il perenne, quotidiano frastuono». E osservare quel palazzo con le finestre dai vetri d’alabastro (d’alabastro!), piazzato davanti ai vicoli dei Quartieri. Se non lo osservi con attenzione girandogli intorno quasi non ci fai caso: è praticamente lo stesso isolato del municipio, palazzo San Giacomo. Solo che la facciata di questo guarda il mare, il porto e il Maschio Angioino. Come se la politica non avesse il coraggio di guardare in faccia i bassi. Quel compito spetta al Banco di Napoli. Punto fermo in un caos perenne e totale. «Regnum neapolitanum paradisus est sed a diabolis habitatus», dice un antico proverbio citato nel 1707 all’università di Altdorf e ripreso tra gli altri da Benedetto Croce: «Il regno napoletano è un paradiso, ma popolato da diavoli».

Una città dove si prende l’autobus al semaforo bussando sul vetro al conducente. Dove circolare in motorino senza casco equivale a una sfida al potere e alla legalità. Dove i vigili per strada bisogna cercarli con il lanternino, visto che dei 2.200 in servizio ce ne sono 500 «inabili» per l’«incrocite», una misteriosa infezione dovuta agli incroci. Dove la camorra, come racconta a tinte forti Roberto Saviano, è padrona. Dove l’Istituto autonomo case popolari, secondo la Corte dei conti, incassa mediamente 13 euro e 58 centesimi al mese per abitazione e più del 50% degli affittuari degli alloggi pubblici, come ha denunciato il procuratore della Corte dei conti Arturo Martucci di Scarfizzi aprendo l’ultimo anno giudiziario, non paga la pigione. Dove il commercio abusivo è dappertutto, anche sui marciapiedi davanti al Banco, e i giovani africani aprono e chiudono sveltissimi i loro teli pieni di falsi nell’intervallo fra il passaggio di un’auto civetta e l’altra.

Il Banco «è» Napoli. Con tutti i suoi pregi, tutti i suoi difetti. Con la sua storia antichissima e marcata, anche molto dopo l’Unità d’Italia e l’imbarco di Garibaldi per Caprera, dal diritto di battere moneta. Con i suoi compromessi obliqui. Con i suoi strettissimi legami con la politica, che a lungo ha finanziato e dalla quale è stato a lungo inondato di presidenti, funzionari, commessi e portaborse scelti per la tessera. Come sia finita si sa: un buco di 12.400 miliardi di lire. Nove miliardi di euro di oggi. Ispezioni della Banca d’Italia. La scoperta di scelleratezze leggendarie. Che spinsero al commissariamento nonostante qualche istituto di credito fosse in condizioni perfino peggiori. E che ancora oggi, a distanza di 15 anni, hanno uno strascico. La società «Sga», messa in piedi per recuperare i crediti, è ancora lì. E ancora lì stanno i tre commissari e i 70 dipendenti e la trentina di consulenti. Tutti regolarmente retribuiti. E non poco, se si pensa che la spesa per gli organi societari ammonta a 800 mila euro l’anno. C’è chi dice che basterebbe ripercorrere la storia recente per sconsigliare una nuova avventura bancaria targata Sud.

Ma Tremonti non ha dubbi: senza una banca il Sud non si può risollevare. Certo è che quando il progetto è stato presentato a Napoli, poco prima delle «regionali» in Campania (coincidenza…) giurando che non stava per battezzare l’ennesimo carrozzone, il ministro dell’Economia si premurava di dichiarare: «C’è la fila per entrare». Oddio, come «banca meridionale» è piena di «polentoni». Gli azionisti sono il Tesoro in mano al lombardo-veneto Tremonti, l’Unioncamere del cuneese Ferruccio Dardanello, l’Ismea controllato dal ministro dell’Agricoltura padovano Giancarlo Galan, le Poste amministrate dal veronese Massimo Sarmi, le Banche di credito cooperativo che fanno riferimento alle coop bianche del bolognese Luigi Marino… «Terroni» niente? Ma sì: nel meno importante comitato promotore. Ci sono i presidenti delle Bcc meridionali, quello tarantino dell’Ismea Arturo Semerari, l’avvocato «finiano» Gianluca Brancadoro… Il «gioiello» è il vicepresidente dell’Unioncamere, Pasquale Lamorte. Già deputato dc di lungo corso, sottosegretario, strenuo difensore della Cassa del Mezzogiorno. Della serie: rinnovamento nella continuità. Ma i soldi? Chi mette i soldi? Pochi, il Tesoro e gli enti pubblici. Un po’ di più (un centinaio di milioni) le Poste e le banche di credito cooperativo, cioè le ex casse rurali e artigiane.

Che dovrebbero mettere a disposizione anche le strutture fisiche. Già, perché il nuovo istituto meridionale non avrà sportelli propri, ma utilizzerà quelli già esistenti delle «casse» e forse degli uffici postali. Direte: che razza di banca è una banca così, che non c’è? Tranquilli: non è una banca-banca, piuttosto una cosa simile a quelle che una volta si chiamavano gli «istituti a medio termine». Ovvero, una struttura che raccoglie il denaro da chi non lo rivuole subito indietro per prestarlo alle imprese. Certo è che, banca o non banca, non è cambiato moltissimo da quando il Cavour, dice la leggenda, sospirò morendo «Ah, il reste les napolitaines… ». «La questione meridionale», al di là del rancore dei neoborbonici e delle loro ricostruzioni storiche su misura, resta. Dicono i dati Unioncamere che, fatto 100 il patrimonio complessivo (case, terreni, titoli, depositi…) degli italiani, le famiglie aostane o milanesi svettano a 135,5, quelle napoletane sprofondano a 75. Le prime hanno mediamente un «tesoro» di 518 mila euro, le seconde non arrivano a 290. Quanto ai redditi, il paragone tra quelli delle famiglie del Nord e quelle partenopee toglie il fiato: le prime possono mediamente contare su 83 mila euro, le seconde su 37… Ed è difficile immaginare che possa essere una Banca del Mezzogiorno a cambiare questi destini. Tanto più se dovesse essere gestita come il vecchio Banco di Napoli delle lenzuola a pegno…

                                                                                                       

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