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Morto un paese, se ne fa un altro (da un’altra parte)

12.07.2017, Articolo di Alejandro Di Giovanni (da “Fuori dalla Rete” – Giugno 2017, Anno XI, n.3)

Morto-un-paese-se-ne-fa-un-altroIl detto “chi è causa del suo mal pianga se stesso”, lo metterei per inciso a caratteri cubitali ad ogni ingresso del nostro paese tra l’insegna “Bagnoli Irpino” e quella che riporta la denominazione “Città del tartufo nero”. Dopo anni trascorsi ad osservare e ad ascoltare una comunità e il suo piagnisteo continuo, il suo inarrestabile declino culturale, civico, morale e umano, è sorta in me la più totale indifferenza, anzi, il più totale diniego e menefreghismo per una comunità che, altro non è che, responsabile del proprio decadimento e imbarbarimento, della propria condizione di miseria nella quale versa ed è sprofondata.

Il fallito non è solo un fallito, ma colui che non ha consapevolezza di esserlo e scarica le colpe per i propri fallimenti sugli altri o sulle istituzioni (tipico, da parte di questi soggetti evoluti a metà, incolpare per esempio per ogni questione lo Stato o il governo), e non chi fallisce e sa di essere la causa del proprio fallimento: quest’ultimo piangerà, giustamente, solo se stesso. Il fallito dell’epoca nuova, l’analfabeta funzionale, è portato a credere che lui sia perennemente vittima delle imposizioni di qualche entità superiore, che le conseguenze per le proprie stupide e scellerate decisioni e azioni non condizionino o influenzino per nulla la sua realtà e quella a sé più o meno prossima, subisce il disegno complottistico di un sistema che non può governare o influenzare (gli conviene pensare).

La colpa è del comune, la colpa è del governo, la colpa è degli immigrati, sono le chiacchiere da bar che adesso affollano anche i social media, sdoganando oltre ogni spazio e tempo l’imbecillità di chi le proferisce. Questa gente, oggi, rappresenta la maggioranza del mio inerme paese (simile discorso può valere anche su scala nazionale), e con questi non c’è articolo o ragionamento che tenga, nessuno.

Nel concitato marasma generale generato da anacronismo evolutivo fortificato dai soliti pregiudizi e luoghi comuni, emerge il bagnolese sapiens che tutto è e che nulla di nulla sa (per limitatezza cerebrale o socialmente avvenuta per la lunga esposizione alla mediocrità del vivere in provincia), ma che tutto ha da insegnare e vuole insegnare, perché dice con sicumera dissolutezza “tu non sai che…, che ne sai tu…!”; si è costruito praticamente un suo modo di essere percepito, ditegli sempre di sì.

C’è poi il bagnolese aliens, che si lamenta, per esempio e spesso, dei politici che amministrano il proprio paese, gli stessi politici che ha votato e contribuito con il suo voto a mettere lì in propria rappresentanza (vedi ultima tornata elettorale e condizione attuale), magari avevano qualcosa da riscuotere dal familiare/compare di turno votato, ed è rimasto con un pugno di neuroni in mano, e si ricopre pure la bocca di inopportuna e improbabile etica magari; si è creato un mondo parallelo dove crede di poter vedere legittimate le sue stronzate.

C’è poi il bagnolese humanus, praticante cattolico in prima fila in ogni sfilata/parata con statua a corredo e abitudinario scalatore di rampe di chiese, commosso dinanzi a sermoni a improbabili entità ultraterrene dedicati, è quello che ti guarda dall’alto verso il basso per il vademecum del buon credente seguito a puntino (quindi riabilitato moralmente), è lo stesso che ritroviamo in prima fila sul fronte razziale, a difendere con tutta la disumanità ed egoismo del Terzo Reich la specie/razza bagnolese dalla minaccia del profugo o dell’immigrato, perché questa è tanto perfetta esteticamente, intellettualmente e moralmente che guai a modificarla geneticamente (come no…): il suo avido timore di perdere anche solo un euro prevarica ogni principio di volontà di solidarietà umana (pur incitata nelle scritture sacre).

Il bagnolese pietas è invece il compaesano che all’apparenza dichiara miserie e stenti che nemmeno un africano subsahariano disperato avrebbe il coraggio di dichiarare, spesso conclude con un “tiriamo a campare, c’amma fa”, ha più soldi di tutta l’Africa subsahariana messa insieme. E’ per natura votato al vittimismo, al catastrofismo e alla tragedia irreversibile.

Ora, è sempre errato e semplicistico generalizzare, non tutti i miei compaesani sono così, infatti questi che rappresentano delle eccezioni o sono andati via, o presto se ne andranno: penseranno al loro paesino, alle loro radici, e dopo il trasporto subito un brivido di sconforto, per un paese che meriterebbe gente che, almeno, dovrebbe piangere solo se stessa per la causa del mal causato, perché tutto quello che siamo, lo siamo per causa nostra.

Un paese è la gente che lo abita e lo vive, un paese non è quando la gente del paese non esiste, o quando come l’ego bagnolese criticus (umanamente e immaterialmente più devastante e letale del terremoto materiale del 1980), abita e lo vive limitandosi a farlo come una mucca abita e vive sull’altopiano del fu una volta Laceno, incurante di nulla e di nessuno, se non del suo solo senso egoistico e primitivo del sentirsi sazia e appagata.

Tanti i modi di morire, a questo punto meglio il nulla, meglio un paese morto che sa di esserlo, che il nostro che non ha consapevolezza di esserlo già (nella peggior maniera).

                                                                                                       

1 Commento »

  • pietro pagnini scrive:

    Per completezza aggiungerei il conto per il “Fu turistico Laceno”.
    Ahinoi, le dipartite, i riti funebri e le relative sepolture non sono omaggio per nessuno, anche per l’eccellenti amministrazioni…!

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