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«Storia del Mezzogiorno e … Unità d’Italia»

14.01.2011, del prof. Fiorentino Vecchiarelli

«Storia del Mezzogiorno e moti che hanno determinato l’Unità d’Italia»

(Conferenza tematica del 27 novembre 2010  a Bagnoli Irpino. Estratto della relazione)

Nel 1815, a Vienna, si riuniva un grande congresso internazionale, dove capi di stato, ministri, ambasciatori e alti funzionari s’incontrarono per rimettere in piedi il vecchio ordine politico, restaurando i troni dei sovrani assoluti che ne erano stati cacciati (Restaurazione). Questo « vertice» – come lo definirebbero i giornali dei nostri giorni – si proponeva anche un altro scopo: creare le premesse di una lunga pace dopo tante guerre disastrose per l’economia europea. Per salvaguardare appunto la pace (e i troni), Austria, Russia e Prussia si unirono in un patto di reciproco aiuto detto Santa Alleanza, perché fondata sui principi del cattolicesimo e dell’ordine. L’Inghilterra non aderì a tale alleanza, preferendo starsene in disparte e conservare libertà di manovra nella sua politica internazionale. L’obiettivo delle grandi potenze era dunque di passare un energico colpo di spugna su tutto quanto avevano fatto la Rivoluzione Francese . e Napoleone. Un’impresa quasi impossibile, anche se grande era il desiderio di pace. Infatti molti erano stati i cambiamenti:

l) si era affermata una nuova classe, la borghesia; 2) era sorto, sotto la guida di questa, un nuovo sistema economico, basato sull’industria; 3) si era affacciato nella borghesia di tutta l’Europa un nuovo ideale: il progresso.

Anche tra gli appartenenti alle famiglie aristocratiche, molti avevano capito che i tempi delle monarchie feudali erano ormai finiti. La Restaurazione dunque urtò fin dal principio contro una sostanziale tendenza al rinnovamento al quale gli uomini illuminati aspiravano . Durante la Restaurazione, il paese fu di nuovo diviso in sette piccoli stati: il Regno del Lombardo-Veneto (sotto il controllo diretto dell’Austria); il Regno di Sardegna; il Ducato di Modena e Reggio; il Ducato di Parma e Piacenza; il Granducato di Toscana; lo Stato Pontificio; il Regno delle due Sicilie. I vecchi sovrani ripresero a governare con le antiche leggi e i privilegi di un tempo. Compito facile perché l’Italia era un paese soprattutto contadino, dove la principale forza rivoluzionaria (la borghesia) era assai limitata.

Soltanto pochi animosi, non trattenuti dalla loro debolezza, congiuravano nell’ombra per abbattere i governi al potere. Erano questi i componenti delle cosiddette società segrete. La più famosa delle società segrete fu la Carboneria. Era così denominata perché i suoi componenti usavano il linguaggio dei carbonai, per non farsi scoprire dalla polizia. Il «carbone» erano le idee; la «foresta» era l’Italia; i «lupi» erano i tiranni, eccetera. In realtà questa setta ebbe presa assai limitata sulla popolazione. La grande maggioranza degli Italiani la ignorava o le era contraria; il popolo non sapeva nemmeno che cosa volesse dire la parola cc Costituzione »; la nobiltà e l’alta borghesia erano più che soddisfatte dei governi al potere. La borghesia degli affari e del commercio aveva ancora un peso troppo limitato per pensare a una rivoluzione. Nonostante la generale indifferenza, dal 1820 in poi si svolsero in Italia alcuni moti e complotti che, nel quadro storico generale ebbero di fatto conseguenze molto limitate. Il 2 luglio 1820, a Nola, nella Campania, due giovani ufficiali, Morelli e Silvati, con un’azione audace riuscirono a strappare, sia pur per breve tempo, la Costituzione al re delle Due Sicilie il quale, protetto dall’Austria, represse il movimento. L’anno successivo, una congiura di liberali (incoraggiata pare dal giovane principe ereditario al trono piemontese) scatenò una rivolta a Torino: l’Austria intervenne anche in questo caso e i moti furono sedati. Si ebbe poi una serie di cospirazioni, seguita da arresti, processi e condanne contro coloro che le avevano organizzate: Silvio Pellico, il conte Federico Confalonieri, il commerciante modenese Ciro Menotti, e altri ancora. Tali vicende non ebbero alcuna seria conseguenza nella vita politica d’Italia, perché nell’Italia del 1820-30 la grande maggioranza della gente non si occupava di politica né aveva alcuna opinione a proposito del problema nazionale. Tale indifferenza era dovuta alla stanchezza e alla delusione che avevano fatto seguito agli agitati decenni precedenti, e anche alle generali condizioni della società del tutto sfavorevoli al sorgere di un vasto movimento patriottico.

Proprio negli anni in cui la coscienza nazionale non era ancora formata, si inserì nella situazione politica una personalità davvero nuova: Giuseppe Mazzini, che parlava con linguaggio rivoluzionario. Giuseppe Mazzini, nato a Genova nel 1805, era infatti un temperamento ardente e mistico, dotato di intelligenza vivissima. Aveva aderito alla Carboneria e a causa di questo, prima era stato imprigionato, poi inviato in esilio in Francia. Intuendo le ragioni profonde della debolezza dei movimenti cospiratori, che erano limitati a piccoli gruppi di persone, fondò la Giovine Italia, con lo scopo preciso di svolgere un’intensa azione di propaganda, soprattutto rivolta ai giovani. In scritti appassionati e pieni di calore Mazzini espose le sue idee: l’Italia doveva essere «unita, indipendente e repubblicana »; occorreva educare il popolo; il paese non poteva essere « fatto» senza che il popolo diventasse responsabile e protagonista delle sue scelte. Il motto di Mazzini era « Dio e Popolo »; egli infatti interpretava la religione come un ideale seriamente vissuto di vita interiore e di rinnovamento morale, al di fuori dei dogmi delle chiese.

Queste idee, fuse con propaganda instancabile, entusiasmarono centinaia di giovani: tra questi un capitano di lungo corso nato a Nizza e vissuto a lungo all’estero, Giuseppe Garibaldi. Le stesse idee piacquero assai meno a molti altri, per la loro sostanza rivoluzionaria. Il clero considerava Mazzini una testa calda di miscredente. I re (compreso quello del Piemonte) vedevano in lui un sovversivo. Ben presto le idee mazziniane cominciarono a dare i loro frutti.

Nel 1844 due giovani mazziniani, i fratelli Emilio e Attilio Bandiera, ufficiali di marina austriaca, nativi di Venezia, cercarono di far insorgere l’Italia meridionale. Sbarcarono in Calabria con pochi seguaci, credendo di trovare il popolo già in sommossa, ma erano male informati. Furono infatti imprigionati con l’aiuto di alcuni contadini che li credettero banditi, e chiusi in carcere a Cosenza. In seguito, processati e condannati a morte, furono fucilati nel vallone di Rovito (Cosenza) con sette compagni.

Si è detto prima delle idee di Mazzini. Ma non si deve credere che tutti, anche quelli contrari alla dominazione austriaca, fossero d’accordo. Gli scrittori di questioni politiche avevano anzi idee molto diverse l’uno dall’altro. Anche questo contribuiva a impedire che la causa dell’indipendenza facesse passi in avanti. È interessante comunque vedere che cosa pensavano tre scrittori fra i più importanti: il cattolico Vincenzo Gioberti, il moderato Cesare Balbo e il democratico Carlo Cattaneo.

Gioberti non credeva nell’Italia unita né nella necessità di un profondo cambiamento. Per lui la migliore soluzione del problema italiano era la creazione di una confederazione dei vari stati della penisola, ciascuno indipendente sotto il proprio sovrano, e con il papa presidente della confederazione.

Cesare Balbo era contrario a una guerra contro l’Austria. La soluzione doveva essere trovata con trattative di ambasciatori, offrendo agli Austriaci terre in Oriente in cambio dei possedimenti italiani.

Ben diverso era l’orientamento di Cattaneo. Egli riteneva che il problema più importante fosse di cacciare gli Austriaci; ma dopo, aggiungeva, non si doveva realizzare uno stato unitario (le popolazioni italiane sono troppo diverse tra loro!), bensì uno stato federale e repubblicano che rispettasse le diversità e fosse fondato su una democrazia reale, praticata a tutti i livelli. Era dunque ancora in dubbio se l’Italia dovesse essere « unita »; A questo risultato si arrivò per un insieme di circostanze, e quasi per caso. La gente qualsiasi era ancora più incerta e divisa: per molti, il problema era un’invenzione di una minoranza di esaltati. Qualcosa cominciava però a maturare. Si avvertiva un cambiamento sempre più preciso a mano a mano che ci si avvicinava alla metà del secolo e che poteva essere spiegato in molti modi: con le notizie che venivano dall’Inghilterra (dove la rivoluzione industriale trionfava), con l’immagine di sfasciume e di corruzione offerta da alcuni stati italiani (a esempio quello di Napoli), con la convinzione di alcuni che l’Italia avesse rispetto all’Europa un ritardo di civiltà valutabile in almeno cinquanta-cento anni.

Nel 1846 era stato eletto papa il marchigiano Giovanni Mastai Ferretti, che assunse il nome di Pio IX. Quest’uomo volle aprire il suo regno con un gesto capace di procurargli le simpatie generali: concesse alcune riforme, seppure moderate; emanò alcune leggi molto attese, anche se caute; volle apparire « quasi liberale », anche se Con tutta la prudenza che la tradizione richiedeva. « Viva Pio IX! » si gridava in tante regioni italiane. L’entusiasmo fu generale. La gioia per il « papa buono» dopo il precedente che era stato giudicato da molti un reazionario, divampò dovunque per uno di quei fenomeni collettivi che in Italia sono sempre stati frequenti. I Principi italiani, spinti dalla politica del nuovo papa, e anche dalle inquietudini che serpeggiavano nei loro stati, si affrettarono a fare qualche concessione. li primo stato a concedere la costituzione (cioè un riconoscimento scritto di alcuni diritti fondamentali dei cittadini) fu il Regno delle Due Sicilie. li re la concesse nel gennaio del 1848 a seguito di disordini. Seguirono l’esempio il granduca di Toscana, il re di Sardegna (e Piemonte) Carlo Alberto di Savoia, e il papa stesso. La costituzione concessa da Carlo Alberto-prese il nome di Statuto e fu ufficialmente promulgata il 4 marzo 1848. Essa, al contrario della costituzione della Repubblica italiana oggi in vigore, non fu votata da un’assemblea liberamente eletta dal popolo, ma fu il prodotto di una concessione regia. Lo sviluppo dell’industria era arrivato nel continente, in Francia soprattutto, e aveva portato alla ribalta una nuova classe sociale: il proletariato operaio cittadino, molto più irrequieto e politicizzato di quello delle campagne. Anche in Italia la borghesia s’era resa conto che fin quando la penisola fosse rimasta divisa in tanti staterelli sotto la dominazione straniera, non vi sarebbe mai stato sviluppo economico. Questo insieme di fermenti accese il detonatore della rivolta. Il segnale partì da Parigi. La causa: il malcontento popolare per la politica del governo e l’esasperazione per il rapido aumento dei prezzi prodotto da una carestia nelle campagne. La fiammata si estese rapidamente: a Vienna, a Berlino, a Budapest, e poi anche in Italia. il 16 marzo 1848 giunse a Venezia la notizia che Vienna s’era ribellata e che il capo del governo austriaco, il principe Clemente di Metternich, era fuggito. Un gruppo di patrioti decise di ricostruire la Repubblica veneta e gli Austriaci furono cacciati. A Milano un centinaio di giovani andò sotto il balcone del governatore O’Donnell per chiedere la costituzione. Furono allontanati dai gendarmi: la rivolta dilagò, per la strada si alzarono le barricate (18-22 marzo 1848) da cui si cominciò a sparare. il comandante della guarnigione, maresciallo Radetzky, ritenne più prudente, in attesa di rinforzi, ritirare le truppe dalla città rifugiandosi nelle fortezze ai confini del Lombardo-Veneto. A capo della insurrezione delle « cinque giornate» fu Carlo Cattaneo. Le popolazioni liberate non si sentivano forti abbastanza per impedire il ritorno degli oppressori: chiesero aiuto al Piemonte. Ma qual era la vera situazione politica? Quella di sempre. Il popolo italiano, nel suo insieme, non era pronto all’insurrezione né a partecipare a una guerra contro l’Austria. I sovrani stavano a guardare preoccupati. Gli uomini di cultura erano divisi da forti contrasti d’idee. Quando Carlo Alberto mandò le sue truppe nel Lombardo-Veneto, il suo piano era ben preciso: non si trattava certo di dare una mano ai rivoluzionari, ma di completare l’opera che non era riuscita ai suoi antenati, annettere al Piemonte la ricca Lombardia. il 23 marzo 1848 le truppe piemontesi passavano il Ticino. In precedenza molti volontari provenienti dalle varie regioni d’Italia s’erano arruolati: però, il peso della guerra contro l’Austria gravò quasi solo sui soldati piemontesi, inferiori al nemico per numero e mezzi. La guerra ebbe inizio con alcuni modesti scontri. Cominciò comunque bene: le truppe di Carlo Alberto vinsero a Goito e a Peschiera. La notizia della caduta della fortezza di Peschiera suscitò un grande entusiasmo fra le truppe: Carlo Alberto fu acclamato sul campo re d’Italia! TI maresciallo Radetzky però, ricevuti i necessari rinforzi, passò al contrattacco e sconfisse i Piemontesi a Custoza. Allora Carlo Alberto dovette chiedere l’armistizio (3 agosto 1848); la Lombardia e Milano furono rioccupate dagli Austriaci; in tal modo finiva la prima fase della prima guerra dell’indipendenza italiana. Nel frattempo in Europa la violenza delle rivoluzioni era stata soffocata. Le potenze assolutiste erano di nuovo padrone del campo. Nei giorni di Custoza erano rientrati in Italia Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini. Nel marzo del 1849, Carlo Alberto, sotto la pressione dei suoi consiglieri, riprese la guerra; fu battuto a Novara. La sera stessa della battaglia, il 23 marzo, il re rinunziò al trono in favore del figlio Vittorio Emanuele, e se ne andò in esilio in Portogallo, a Oporto . Mazzini nel febbraio del 1849 aveva dato vita alla Repubblica romana, che difesa da Garibaldi dovette cedere all’inizio di luglio. Il generale Radetzky impose a Vittorio Emanuele Il dure condizioni di pace, tra le quali lo scioglimento del corpo dei volontari e la riduzione dell’esercito. Forse gli suggerì anche il ritiro della Costituzione, ma il giovane re mantenne la concessione fatta dal padre, acquistandosi così subito la fama di re corretto e non contrario al liberalismo. Intanto, tra gli uomini politici piemontesi aveva cominciato a mettersi in luce Camillo Benso, conte di Cavour. Vittorio Emanuele II ebbe una felice intuizione: lo scelse come suo primo ministro. Si deve infatti principalmente a Cavour se la monarchia sabauda diventò la protagonista della storia d’Italia nella seconda metà dell’Ottocento. Si deve ancora a Cavour se il Risorgimento si concluse con una fortunata avventura nel sud in cui fu astutamente utilizzata la straordinaria capacità militare di Garibaldi. Il conte di Cavour era un realizzato re, un uomo colto, di mentalità aperta, buon conoscitore di altri paesi. Nato da una famiglia agiata di possidenti, s’era potuto permettere studi e lunghi soggiorni all’estero; era stato per molto tempo a Londra, Parigi e Ginevra, dove aveva studiato i principali problemi politici ed economici: gli istituti della democrazia, le industrie, il commercio, la moneta, Anche attraverso le vicende di altri paesi, Cavour si era reso conto che l’Italia era rimasta ancorata troppo a lungo a ideali ormai superati. Con la nascita dell’industria moderna era sorta una nuova civiltà: quella del denaro, degli scambi, delle comunicazioni, della scienza e della tecnica. Com’era possibile vivere al modo di cent’anni prima, come se il mondo non fosse cambiato? Come illudersi che le attese e le speranze di una rivoluzione che egli giudicava impossibile (quella sognata da Mazzini) maturassero in fretta contro ogni logica e ogni opportunità? Così, mentre continuavano i tentativi rivoluzionari mazziniani (nel 1853 ce n’era stato un altro, a Milano, fallito anch’esso, nel 1857 ci sarebbe stato quello di Carlo Pisacane, concluso tragicamente a Sapri), Cavour studiava in che modo sottrarre il Piemonte alla condizione di isolamento in cui si trovava. Bisognava assolutamente evitare l’errore commesso in occasione della guerra drammaticamente perduta a Novara: che il Piemonte combattesse da solo contro la potentissima Austria. Nella politica estera (ossia dei rapporti fra il Piemonte e gli altri paesi), Cavour cercò dunque di far entrare il suo paese in buone relazioni con l’Inghilterra e la Francia in quanto esse avevano in Europa interessi diversi da quelli dell’Austria e quindi potevano sostenere la causa dell’indipendenza italiana. Nella politica interna, il primo ministro cercò di fare del Piemonte uno stato moderno: fece costruire strade, ponti, ferrovie; incoraggiò il miglioramento dell’agricoltura; favorì lo sviluppo del commercio; promosse la realizzazione di importanti iniziative per la guerra (porto militare di La Spezia) e la pace (traforo del Moncenisio). La politica delle buone relazioni con l’estero di Cavour fu seguita dai fatti. Nel 1855 il Piemonte mandò nella lontana Crimea un esercito di 15 000 uomini che combatterono a fianco delle truppe francesi e inglesi alleate della Turchia contro la Russia. Le truppe piemontesi al comando del generale Alfonso La Marmora si distinsero nella battaglia sulle rive del fiume Cemaia. Così, quando nel 1856 si riunì a Parigi il Congresso per discutere le condizioni di pace con la Russia, Cavour poté prendervi parte e parlare anche delle tristi condizioni dell’Italia dominata dall’ Austria, ottenendo una certa comprensione dall’Inghilterra (per il momento soltanto a parole) e un più vivo interessamento della Francia, per ragioni che vedremo in seguito. In Italia il popolo, lo abbiamo già visto, sembrava non credere alla possibilità di cambiare la situazione politica. Maggiori invece erano l’interesse espansionistico del re di Torino e l’inquietudine della borghesia, la quale si rendeva conto che fin quando il paese fosse rimasto diviso e sotto l’influsso austriaco, non si sarebbe mai avuto un progress economico. Vittorio Emanuele II, il 10 gennaio 1859, in occasione della riapertura del parlamento piemontese, pronunziò un abile discorso politico in cui lasciò intendere di essere sollecitato da più parti, anzi da tutti gli Italiani, ad iniziare una guerra. Disse infatti: «Attraversiamo un m mento grave! Vorremmo essere in pace con tutti, ma non siamo insensibili al <grido di dolore> che da tante parti d’Italia si leva verso di noi! » Queste parole suscitarono un entusiasmo incontenibile: tutti sentivano di essere alla vigilia di una nuova guerra di liberazione. Cavour, intanto, in un convegno segreto a Plombières, era riuscito. preparare un’alleanza militare tra la Francia, interessata a estendere la propria influenza nel Mediterraneo e quindi anche sull’Italia, e il Piemonte con lo scopo di liberare l’Italia dagli Austriaci. L’imperatore dei Francesi, Napoleone m (nipote del grande Napoleone), si era però impegnato ad intervenire soltanto se l’Austria per prima avesse dichiarato guerra al Piemonte. Cavour pensò allora di provocare l’Austria. E, poiché sapeva che avrebbe subito reagito all’arruolamento di volontari, chiamò Garibaldi da Caprera e gli permise di arruolare il maggior numero di volontari per la futura guerra; nello stesso tempo rafforzò l’esercito. L’Austria allora diede un ultimatum: « O ridurre l’esercito, o la guerra! » Cavour respinse l’ultimatum e il 29 aprile 1859 le truppe austriache passarono il Ticino al comando del generale Giulay . Gli Austriaci credevano di travolgere facilmente il piccolo esercito piemontese prima dell’arrivo dei Francesi, ma i Piemontesi allagarono le risaie del Vercellese e i nemici vi rimasero impantanati per più di una settimana. Nel frattempo arrivò l’esercito francese, guidato da Napoleone m. I primi scontri vittoriosi si ebbero a Montebello, a Palestro e a Magenta. L’8 giugno, Vittorio Emanuele II e Napoleone III entravano in Milano. Garibaldi, intanto, con i suoi Cacciatori delle Alpi, vinceva a Varese e a San Fermo ed entrava acclamato in Como. Lo scontro decisivo avvenne però in prossimità del sistema di fortificazioni austriaco del Lombardo-Veneto (il Quadrilatero). I Piemontesi vinsero a San Martino, i Francesi a Solferino, dopo una lotta dura e sanguinosa (24 giugno) e gli Austriaci dovettero ritirarsi oltre il Mincio. Il Veneto intanto attendeva l’arrivo dei Piemontesi, la Toscana, nell’aprile, si era ribellata al granduca, ora anche l’Emilia e la Romagna seguivano il suo esempio dandosi governi provvisori. Ma a questo punto Napoleone III, timoroso anche che la Prussia intervenisse in favore dell’ Austria, firmò un armistizio con gli Austriaci, a Villafranca. Secondo i patti, la Lombardia veniva unita al Piemonte e il Veneto restava all’Austria; Toscana ed Emilia-Romagna poi sarebbero dovute ritornare agli ex sovrani. Grande fu la delusione specialmente di Cavour per il comportamento di Napoleone. Però, al tavolo della pace, a Zurigo (10 novembre 1859) e condizioni di armistizio furono in parte mutate e fu deciso di lasciare liberi gli stati italiani di decidere la propria sorte, anche in seguito ai moti dell’Italia centrale. Furono ceduti a Napoleone la Savoia ed il territorio di Nizza. E così, nel marzo 1860, l’Emilia, la Toscana e la Romagna con libera votazione (plebiscito) si univano al Piemonte. I fatti dunque avevano superato i progetti iniziali. Né Vittorio Emanuele né Cavour pensavano che in pochi mesi l’obiettivo di estendere il dominio del Piemonte a una gran parte dell’Italia settentrionale e a una parte di quella centrale fosse raggiungibile. Ma ora che fare? Attaccare il Veneto? No, perché l’Austria continuava a far buona guardia ed era venuta meno l’alleanza della Francia. Conquistare Roma!? Non era possibile, poiché da Parigi Napoleone III aveva fatto intendere di considerare il papa sotto la protezione della Francia. TI Regno delle Due Sicilie poteva invece essere maturo per un’azione militare: le notizie che giungevano da Napoli e da Palermo confermavano che la monarchia era debole, che molti erano scontenti, e che l’esercito borbonico non era invincibile. C’era, è vero, il pericolo che l’Austria potesse intervenire con il suo esercito a favore del regno. Sfidando ancora una volta la fortuna. Cavour, da buon diplomatico, trovò la soluzione giusta: lasciare il Piemonte fuori della guerra, e spingere i volontari di Garibaldi all’azione nel sud. Giuseppe Garibaldi partì dallo scoglio di Quarto (Genova) nel maggio del 1860. Aveva con sé alcuni bastimenti messi a disposizione dall’armatore genovese Rubattino, un po’ di armi e circa mille giovani, alcun: dei quali stranieri che vivevano una magnifica avventura. L’impresa si rivelò meno difficile del previsto. Le resistenze della truppa borbonica crollarono dopo le prime scaramucce, grazie anche alla tacita ma efficace protezione della flotta inglese, che si teneva po distante dalle coste. Dichiaratosi dittatore a Palermo, nel nome di re Vittorio Emanuele Garibaldi si lanciò in una travolgente avanzata militare, conclusasi c :.. un vittorioso scontro sul fiume Volturno (lo ottobre 1860) presso i«. poli, che sanzionò la disfatta dei Borboni nell’Italia meridionale e:.:. caduta del Regno delle Due Sicilie. A questo punto Cavour, che fino ad allora era rimasto astutamente -=disparte, non poté più ignorare il pericolo di un Garibaldi padrone d e, campo. TI conquistatore del sud era un capo irresistibile, ma ave: ~ anche idee repubblicane. Meglio dunque frenarlo! Allora un esercito ,i. truppe regolari piemontesi mosse dal nord e raggiunse Garibaldi = tempo per impedirgli che muovesse con i suoi volontari contro Rome conquistando metà dell’Italia e creando in tal modo un grave problema politico. Vittorio Emanuele n e Garibaldis’incontrarono a Teano . ..:. provincia di Caserta (26 ottobre 1860). A.questo punto il capo “e “camicie rosse doveva chinare la testa dinanzi al suo re e rinunziare _ qualsiasi progetto politico che non andasse d’accordo con la costituzione di un regno nazionale sotto casa Savoia.

Il 17 marzo 1861 veniva proclamato solennemente a Torino il Regno d’Italia. Questo stato aveva 259 320 chilometri quadrati di territorio e circa 22 milioni di abitanti, con una media di 85 abitanti per chilometro quadrato. Viveva prevalentemente di agricoltura e con scarse risorse. Qualcuno, più intelligente degli altri, si era reso subito conto delle difficoltà. li marchese Massimo d’Azeglio, già capo del governo nel regno del Piemonte prima di Cavour, aveva detto, qualche attimo prima di morire, una frase molto significativa: « Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli Italiani! » «L’Unità d’Italia è stata, purtroppo, la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico, sano e profittevole. L’unità ci ha perduti. E come se questo non bastasse, è provato, contrariamente all’opinione di tutti, che lo Stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che nelle meridionali. » (Giustino Fortunato, 2 settembre 1899, lettera a Pasquale Villari).

La spedizione dei Mille fu la grande occasione: trasformare il Risorgimento da un movimento d’élite a un grande movimento popolare; occasione in vero persa da quei giovani che pure con entusiasmo vi presero parte attiva” In effetti Garibaldi aveva promesso, dopo aver assunto la guida dell’isola per ordine di Vittorio Emanuele II, di abolire le tasse che gravavano sull’isola quali la tassa sul macinato e del dazio d’entrata sui cereali, l’abolizione degli affitti e dei canoni per le terre demaniali e di voler procedere ad una riforma del latifondo. Queste promesse non attirarono, almeno inizialmente, un numero consistente di siciliani, ma il primo scontro, la battaglia di Calatafimi, ebbe comunque esito positivo per i Mille contro le più numerose e meglio addestrate truppe borboniche. ml Da questo momento inizia la guerra separata dei contadini ancora condotta in nome di Garibaldi e della libertà. Invadono i demani comunali, i feudi dei baroni latifondisti, bruciano gli archivi dove sono custoditi i titoli del loro servaggio. Sospetto di colonizzazione Varie fonti storiografiche vedono nel processo di unificazione progettato dal governo sabaudo un pretesto di colonizzazione per fini economici del Regno delle Due Sicilie, attaccato militarmente, con l’appoggio indiretto del primo ministro britannico Palmerston, senza aver emesso una dichiarazione di guerra. A quel tempo l’economia del Regno di Sardegna attraversava un periodo di recessione dovuta alle fallite guerre espansionistiche fino a quel momento sostenute e alla crisi della produzione del grano abbattutasi sull’intera penisola nel 1853. Fu in questa occasione che lo stesso Cavour ricevette pesanti accuse di avere esportato quantitativi di frumento per interessi personali anziché distribuire gli scarsi raccolti alla popolazione affamata. I titoli di stato del Piemonte rimasero invenduti e non collocati alla borsa di Parigi nel 1859. Francesco Nitti nella sua opera Scienza delle Finanze sostiene che il regno duosiciliano possedeva un patrimonio di 443 milioni di lire oro (il più alto tra tutti gli stati preunitari) mentre il Regno di Sardegna amministrato da Cavour ne aveva solo 27 milioni. Lo stato borbonico vantava anche diversi primati tra cui la costruzione della prima ferrovia nella penisola, della prima illuminazione a gas e del primo telegrafo elettrico. Nel 1859 la Sicilia aveva un bilancio commerciale attivo di 35 milioni, mentre il Piemonte non arrivava a 7 milioni, sebbene l’economia sabauda fosse più dinamica e moderna rispetto a quella prevalentemente latifondista del mezzogiorno. Dall’iniziativa di Cavour, anche il governo inglese avrebbe cercato di trarre profitto, interessato com’era ad impossessarsi interamente delle miniere di zolfo siciliano, di proprietà del Regno borbonico dal 1816 e gestite in regime di monopolio dagli stessi inglesi. I rapporti economici infatti tra Borboni e inglesi avevano cominciato a deteriorarsi fin dal 1838, quando Ferdinando II,non reputò più conveniente il rapporto commerciale con gli inglesi che acquistavano lo zolfo a costi bassi per poi rivenderlo a prezzi molto alti. Il re, avendo eliminato la tassa sul macinato, per compensare le mancate entrate nelle casse del regno decise quindi di affidare la gestione delle miniere di zolfo ad una ditta francese, la Taix Aycard di Marsiglia, che offrì il doppio della cifra rispetto agli inglesi. Tutto ciò provocò una dura opposizione della Gran Bretagna che minacciò addirittura il sequestro delle navi siciliane. Per questi motivi di natura economica nel 1856, quattro anni prima della Spedizione dei Mille, Cavour e il conte di Clarendon, ministro degli esteri inglese, avrebbero avuto contatti per organizzare rivolte antiborboniche nelle Due Sicilie. Sempre in questo periodo, Cavour si sarebbe servito della stampa a fini di manipolazione mediatica, corrompendo l’,agenzia Stefani ed altre testate giornalistiche. Il primo ministro sabaudo avrebbe imposto propagande antiborboniche per accattivarsi le simpatie del popolo meridionale. A sostegno di questo avvenimento vi è la testimonianza di una lettera che Cavour indirizzò a Guglielmo Stefani, proprietario dell’omonima agenzia, ove viene scritto: «La ringrazio dell’ offerta dei suoi utili servizi, dei quali sappia che io tengo conto e memoria» . Sempre secondo Nitti, al termine del processo di unificazione, il patrimonio dell’ormai caduto regno duosiciliano costituì una solida base per il rilancio economico delle regioni settentrionali in maggiori difficoltà come Lombardia, Piemonte e Liguria. Particolarmente duro fu poi il trattamento riservato ai circa 20.000 militari al servizio del sovrano borbonico e del papa che erano stati fatti prigionieri: questi furono deportati nel forte di Fenestrelle, dove la gran parte di loro morì per la fame, gli stenti e le malattie.

Il grande assente « … se le plebi parteciparono poco al Risorgimento, ebbero parte assai, e dolente e coraggiosa, nel pagarne i debiti» (Riccardo Bacchelli)

Il popolo fu il grande assente del Risorgimento: ” … la mobilitazione patriottica ha investito frazioni dell’aristocrazia illuminata, consistenti fasce di ceto medio, in particolare intellettuali, gruppi di artigiani, non gli operai del resto rari in un’Italia in buona parte preindustriale, e tanto meno contadini – la maggioranza della “Nazione”> murati nell’indifferenza e nel rancore sedimentati da secoli di estraneità e di separazioni tra le classi” (M.Isnenghi, op, cit). Mentre le elites fanno la storia, dibattendo progetti su cui concordano solo per l’unità e l’indipendenza politica, ma per il resto dividendosi tra regime monarchico o repubblicano, stato unitario o federativo, metodi diplomatici o rivoluzionari, milioni di contadini rimangono nella non storia. Anzi entreranno nella storia proprio battendosi contro l’unità ormai raggiunta: è il fenomeno del cosiddetto brigantaggio meridionale che ” … può considerarsi pressoché l’unica manifestazione reale, per estensione geografica, partecipazione numerica e durata di presenza attiva delle masse subalterne negli anni del Risorgimento” (M.Isnenghi, op.cit.).

Il Risorgimento popolare come giustificazione ideologica

Già all’indomani dell’unità la classe dirigente presenta ciò che era accaduto come il risultato di una spinta nazionale di popolo e questo si vuole che sia insegnato nelle scuole del Regno: cosicché varie generazioni di italiani hanno imparato il Risorgimento come avrebbe dovuto essere invece che com’è stato. In realtà non si tratta semplicemente di una mistificazione di stato ma del tentativo, sentito come essenziale, di costruire a posteriori una base storica comune a un popolo sino allora assente. Gli intellettuali cercano ora un collegamento con le classi subalterne tentando di persuaderle che l’unità italiana è stata il frutto della volontà del popolo guidato dalle “elites” risorgimentali e creando il mito di una coscienza nazionale italiana esistita nei secoli passati e ora finalmente realizzatasi. Il”popolarismo” risorgimentale Il popolo assente dalla storia che si faceva era invece ben presente nella storia che si scriveva. Si può dire che il Risorgimento sia nato in tipografia. Giornali quotidiani, manifesti, volantini, non fanno che appellarsi al popolo. Non solo scrittori ma l’avvocato, lo studente, il professore chiamano il popolo ad attivarsi e a condividere gli ideali nazionali. Ma il popolo, nelle aree più depresse della penisola, ove il sistema scolastico non era sviluppato, nella maggioranza non sa leggere. E quando trova incollati su i muri i proclami e gli appelli ha bisogno della mediazione di intellettuali, il farmacista, il prete che gli tradurrà il messaggio a suo modo. Non si tratta poi semplicemente di ignoranza e analfabetismo che fanno sì che la classe dirigente alla fine parli a se stessa, ma anche il fatto che la circolazione delle idee è ancora difficile nell’Italia divisa dell’Ottocento priva quasi di strutture di comunicazione e dove le polizie sono state addestrate a impedire che tra le masse e gli intellettuali si realizzi il contagio politico. Ed infine, ultimo grande ostacolo alla comunicazione tra intellettuali e popolo, è la non coincidenza di codice tra coloro che porgono il messaggio e quelli che lo ricevono .

Una storiografia sviluppatasi già all’indomani della raggiunta unità d’Italia con gli storici N.Bianchi e C.Tivaroni volle presentare il movimento risorgimentale come il perfetto risultato realizzatosi quasi in modo provvidenziale tramite l’incontro tra democratici, il popolo, i moderati, ed i politici liberali, avvenuto con la mediazione della monarchia sabauda. In contrasto con questa visione provvidenzialistica già l’Oriani nel 1892 con Croce mettevano in rilievo come in effetti l’unità d’Italia si era raggiunta con una conquista regia risultato di un compromesso tra una monarchia sabauda troppo debole per unificare il paese da sola e un movimento democratico, altrettanto debole per poter fare una rivoluzione popolare cosicché l’Italia postunitaria difettava ora nelle sue strutture democratiche e non avrebbe mai potuto assolvere al ruolo che pretendeva di grande potenza europea. Gli storici del periodo fascista come Gioacchino Volpe (1927) ripresero invece la teoria postrisorgimentale che giudicava come positiva la visione di un Risorgimento come risultato di una guerra dinastica poiché questa era stata la necessaria premessa dell’avvento del fascismo che, dopo la felice conclusione della “quarta guerra d’indipendenza”, la prima guerra mondiale, aveva realizzato i già delineati destini del popolo italiano che il movimento fascista aveva fatto protagonista di quella rivoluzione popolare prima fallita.

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Alcuni “PRIMATI” del Regno delle due Sicilie …

GIURISPRUDENZA – ORGANIZZAZIONE MILITARE:

• Promulgazione del primo Codice Marittimo italiano;• Primo codice militare; • Istituzione della motivazione delle sentenze (G. Filangieri, 1774); • Istituzione dei Collegi Militari (Nunziatella) ; • Corpo dei Pompieri. • Prima applicazione dei principi della Scuola Positiva Penale per il recupero dei malviventi;-

SOCIETÀ, SCIENZA E CULTURA:

• Prima assegnazione di “Case Popolari” in Italia (San Leucio presso Caserta); • Primo Cimitero italiano per poveri (il “Cimitero delle 366 fosse”, nei pressi di Poggioreale) ; • Primo Piano Regolatore in Italia, per la Città di Napoli; • Cattedra di Psichiatria; • Cattedra di Ostetricia e osservazioni chirurgiche; • Gabinetto di Fisica del Re; • Osservatorio sismologico vesuviano (primo nel mondo), con annessa stazione metereologica; • Officina dei Papiri di Ercolano; • La più alta percentuale di medici per abitante in Italia; • Più basso tasso di mortalità infantile in Italia; • Prime agenzie turistiche italiane; Scavi archeologici di Pompei ed Ercolano; • Prima cattedra di Astronomia; • Accademia di Architettura. una delle prime e più prestigiose in Europa; • Primo intervento in Italia di Profilassi Anti-tubercolare; • Primo istituzione di assistenza sanitaria gratuita (San Leucio); • Primo Atlante Marittimo nel mondo (G. Antonio Rizzi Zannoni, “Atlante Marittimo delle Due Sicilie”); • Primo Museo Mineralogico del mondo; • Primo “Orto Botanico” in Italia a Napoli; • Primo Osservatorio Astronomico in Italia a Capodimonte; • Primo Centro Sismologico in Italia presso il Vesuvio; • Primo Periodico Psichiatrico italiano pubblicato presso il Reale Morotrofio di Aversa da Biagio Miraglio; • Primo tra gli Stati Italiani per numero di Orfanatrofi, Ospizi, Collegi, Conservatori e strutture di Assistenza; • Primo istituto italiano per sordomuti; • Prima Scuola di Ballo in Italia, annessa al San Carlo; • Prima Città d’Italia per numero di Teatri (Napoli); • Prima Città d’Italia per numero di Conservatori Musicali (Napoli); • Prima Città d’Italia per numero di pubblicazioni di Giornali e Riviste (Napoli); • Scuola pittorica di Posillipo (da cui uscì, fra gli altri, G. Gigante); • Le celeberrime fabbriche di ceramica e porcellana, fra cui quella di Capodimonte; • Teatro S. Carlo (il primo nel mondo), ricostruito dopo un incendio in soli 270 giorni; • Scuola musicale napoletana (Paisiello, Cimarosa, Scarlatti); • Successo mondiale (e tutt’oggi valido) della canzone napoletana; • I palazzi reali.

                                                                                                       

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