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Vai a prendere la mamma

26.04.2017, Il racconto (di Antonio Cella)

Antonio-Cella   Lioni. Un paese, uno dai tanti disseminati lungo la dorsale appenninica, adagiato a fondovalle su un lieve pendio. Un paese dal disegno urbano semplice, privo dell’idea di città, di architettura.

   Si era svegliato, quella domenica di fine novembre, vestito da una leggera nebbia che, come si sa, rappresenta l’abito di tutti i giorni per paesi e città che nella loro skiline inglobano fiumi di ampia portata come l’Ofanto, le cui acque scaturiscono proprio da quella corrusca plaga.

   La domenica del paese è diversa da quella della città. Specie quando da quella determinata domenica la gente si aspetti grandi cose, o piccole cose che, comunque, fanno grande la gioia di vivere quella giornata tanto attesa.

   La domenica della città è anonima, non ha anima. E’ come una conchiglia infranta dalla risacca: tutto tace. E il rumore del silenzio stride, come la frenata del tram, sulle saracinesche spente dei negozi del corso, della piazza del municipio e sui banchi dei mercati rionali. Le insegne, che trasformano in giorno la notte, sono spente; e migliaia di marmitte puzzolenti vomitano dai loro scappamenti una melassa di fumo e di catrame appiccicoso, che annullano la vista e il respiro. Le auto corrono veloci: han tutte fretta! Non c’è voce umana che dispensi calore né mano “nera” che illumini i parabrezza di illusorio candore. Sul bagnato dei marciapiedi i mendicanti tendono a malapena l’umile mano al raro passante che, come zompi, incede con passi incerti verso il gruppo di giovani-vecchi che, accovacciato all’angolo della chiesa della Risurrezione, con l’accendino acceso sotto il cucchiaio di polvere bianca, dispensa il veleno a tutti i componenti per qualche ora di malefica estasi. I semafori proiettano con riluttanza e scetticismo il giallo, il rosso e il verde e, come preti dal pulpito ammoniscono: “Non passare col rosso! Fermati! Rispetta il tuo prossimo che viene da destra. Non uccidere per soddisfare la tua fretta! La vita va vissuta attimo per attimo”.

   Più giù, in periferia, il randagio scodinzola la magra coda pennellata di cenere al caldo della vampata di gomma che, come il faro dalle alture della costa, illumina il maleficio e sopisce la concupiscenza degli impavidi nella trappola fatale, che più non distingue la natura del sesso. Lontano, con lacerante mestizia, s’ode il lamento della sirena dell’ambulanza, che stupra il serpente di lamiera nel tentativo di salvare la vita all’accoltellato di camorra, alla partoriente indecisa, al suicida impenitente.

  I vecchi, in città, muoiono nei corridoi puzzolenti, sotto il ghiaccio dell’indifferenza.  Il paese, invece, è vita: quattro chiacchiere con gli amici di sempre, nella piazza principale; una partita a briscola al bar dello sport; la lettura di un buon libro nella quiete della natura; la fragranza del pane di brace e il buon vino di vigna non fanno certo desiderare certi agi che la città offre a caro prezzo. Se a tanto, poi, aggiungi un buon pranzo fatto di cose genuine, uno spettacolo televisivo di buon livello culturale e una partita di pallone della squadra del cuore, ti si perdonerà finanche la diserzione della messa domenicale.

   Ed era, appunto, la partita di pallone la cosa più interessante che domenica 23 novembre 1980 offriva al paese.

   Il “Lioni”, che militava in promozione, avrebbe incontrato l’odiato “Sant’Angelo”, terzo in classifica del girone “C”. Uno scontro diretto tra due squadre apparentate da una comune origine geografica. Un derby, come impropriamente suol dirsi in gergo calcistico, che avrebbe incendiato le tifoserie che già dalle prime ore del pomeriggio sostavano in composta fila all’ingresso dello stadio lionese.

   Rocco Miniero, non avrebbe rinunciato alla partita neanche se in cambio gli avessero offerto un seggio al Parlamento. Trentadue anni appena compiuti, insegnante elementare di ruolo in servizio presso il locale Circolo Didattico. Padre di Fabio, splendido ragazzo di sette anni e marito felice di Rosetta, donna meravigliosa, anch’essa insegnante.

  La squadra del cuore di Rocco, per la verità, era la Juve. Molti giovani in Irpinia tifano Juve. Ma quando i “locali” si esibivano al Nuovo Comunale di Lardo San Rocco, dove da ragazzo aveva praticato con intelligenza l’arte della “pelota” indossando anch’egli la maglia numero dieci, che fu di Sivori, di Rivera e poi di Maradona, dimenticava ogni cosa e si donava totalmente alla partita.

   Erano le 15,32 quando, con molto ritardo, l’arbitro Sig. Mancino di Montefalcione, diede inizio all’atteso incontro: spettatori sugli spalti, circa duemila. Fabio e Rocco occuparono la tribuna centrale, che guarda verso la montagna. Era il loro posto preferito. Il verde dei castagni, che si inerpicano su per le colline di Oppido e accompagnano il sinuoso percorso della rotabile forestale in direzione di Laceno, faceva da virtuale cornice alle duemila anime scalpitanti sulle gradinate di cemento dello stadio.                                                                                           

   Fabio parlava poco. Sgranocchiava semi di zucca con calcolata lentezza: avrebbero dovuto durare almeno fino a tutto il primo tempo della partita. Nel corso della ripresa, poi, avrebbe avuto, forse, anche i popcorn e la coca cola, nonostante gli fossero stati vietati dalla madre.

   L’inizio della partita fu piuttosto infelice.

   I granata, tale era il colore societario della squadra lionese, riuscivano a malapena a frenare l’impeto degli ospiti. La voglia di vincere, poi, era così forte da intorpidire le idee. La difesa faceva acqua da tutte le parti e, con evidenza palmare, si notava l’assenza di uno schema tattico-logico.

   Il Mister, geometra Alfonso Paolillo, molto pratico e ascoltato dai calciatori, aveva predicato per giorni: “Vi raccomando, segnate un goal subito, in apertura, e praticate, poi, un’attenta difesa per i restanti minuti di gioco. Tutto qui, non vi chiedo di più!”.

   Ma il goal, con disappunto di Rocco Miniero, furono i granata a prenderlo.

   Maturò sugli sviluppi di un calcio d’angolo, come direbbe Sandro Ciotti. Si era al 17° quando il mediano di spinta del “Sant’Angelo” raccolse la palla che, con una perfetta “incornata”, scaraventò nell’angolo alto alla destra del portiere del “Lioni”. Ma il “Lioni”, consapevole di non poter perdere punti nei confronti della squadra che aveva appena segnato, schierò un attacco con tre punte in linea. E fu proprio Martino, il mezzo destro, che a centro campo, con un rapido uno-due col centravanti, lascia partire un poderoso destro che fece gonfiare la rete del pur bravo portiere santangiolese. E’ il pari.

   Inizia il secondo tempo.

   I padroni di casa amministrano tranquillamente la situazione e non hanno eccessivi problemi a controllare il risultato. Ma il “Sant’angelo” non ci sta e ricomincia a pressare lungo le fasce. I locali provano ad arginare nel migliore dei modi la valanga avversaria, che pare spezzare loro letteralmente speranze e dignità, senza riuscire, tuttavia, a tener a bada lo stopper blucerchiato che inesorabile, fermatasi la sfera di petto nella propria area, liberatosi di tre avversari, si porta in velocissima progressione, con un dribbling a dir poco delirante, al cospetto del portiere avversario. Quando depone la palla alle spalle di quest’ultimo, la partita era quasi finita.

   Il “Lioni”, stordito, non riesce più a spezzare il ritmo del “Sant’Angelo” che gioca sul velluto e più non teme i gracili arrembaggi dei granata

   Il triplice fisco finale della giacca nera di Montefalcione, sancì la sconfitta del “Lioni” e lasciò l’amaro in bocca a Rocco e Fabio Miniero che, quasi di corsa, lasciarono il Comunale, oltremodo delusi della prestazione dei granata.

   Nel far ritorno a casa, Rocco e Fabio s’imbatterono, all’altezza della caserma forestale, in Zi Toru, anziano parente di Rosetta.

   Erano le 18 circa. Un tramonto di fuoco si apprestava ad accendere gli ampi spalti della vallata, dopo una giornata di azzurro e di sole, nonostante l’autunno fosse già pronto a mettersi in disparte per consentire al “generale bianco” di allungare le sue mani gelide sulla terra d’Irpinia, l’amata terra, così gravida di storia, che gode, soffre, soggiace e, grazie a Dio, resuscita sempre.           

   <<Ho appena sturato la damigiana di aglianico>>, disse Zi Toru al nipote, <<Entra, te ne preparo un po’ da portare a casa>>.

   Rocco non se lo fece dire due volte. Conosceva bene la preziosità di quel vino.

   Una volta entrato in casa dello zio, Rocco non poté fare a meno di assaggiare quella spremuta di uva che l’anziano congiunto aveva personalmente, e sapientemente, curato colle sue mani per circa due anni. Una parola tira l’altra e il tempo passa: erano le 19,10.

   A questo punto, Rocco, prega il figlio di andare a casa a prendere la mamma perché improvvisamente, forse a causa del buon vino che aveva bevuto, gli era venuta una gran voglia di pizza.

   <<Dirai alla mamma che questa sera ceneremo in pizzeria>>.

    Fabio accolse l’idea paterna con entusiasmo. Salutò appena il vecchio parente e via, di corsa, verso casa.

   La pizzeria di Gerardo Brilla si trovava a pochi isolati dalla casa di Zi Toru. Rocco aspettò lì la sua famiglia.                                          

   Era una serata calda. La luna già si apprestava a marcare i rilievi delle colline che la montagna, come chioccia premurosa, ammantava sotto la sua sagoma violacea. Quel viola malinconico, vestito dell’ultimo riflesso del sole che, ondeggiando sul verde scuro del sottobosco, s’incuneava tra l’azzurro infuocato del cielo, fondendo toni e sostanze.

   Nell’aria si sfilacciavano, languide, le note bachiane de ”Aria sulla quarta nota”, la cui ouverture comincia con “…Mi…la-fa-re-do-si…la-sol…”. Ma la mano che animava la tastiera del pianoforte doveva essere, forse, troppo giovane e inesperta poiché, nella parte successiva, non riusciva ad eseguire con la dovuta maestria la sesta battuta che chiama in causa il “si” e il “re” bemolle. Tuttavia, quel brano di Bach, scritto appositamente per strumenti a tastiera a scopo didattico, poteva accettarsi anche in quel modo, senza perdere minimamente l’antico fascino.

   Le foglie dei platani, che coronavano le strade, si muovevano appena, e sprigionavano dalle venature pallide il sapore del vento.

   Improvvisamente, le note del piano cessarono di fendere l’etere; il selciato cominciò a sussultare e le case ad ondeggiare come velieri in un mare in tempesta. Nel cielo, ormai cupo, si alzarono accecanti bagliori e gli alberi tutti si contorsero piegandosi sull’asfalto. Quindi: boati, grida di terrore, pianti e nuvolacce di polvere.

   L’apocalisse, la violenza e il rombo di mille uragani, si erano abbattuti inesorabilmente sul paese.

   In soli novanta secondi furono sbriciolati interi quartieri (e interi paesi della cordigliera appenninica campano-lucana) e tutto quanto ciò che pochi secondi prima esisteva di Lioni, di Santa’Angelo dei Lombardi, di Calabritto, di Conza della Campania e tanti altri ancora. La chiesa madre di Lioni, la chiesa dell’Annunziata, il convento di San Rocco, il campanile, le case del quartiere “Vucculu”, le case del quartiere Spirito Santo, quelle di via Serpentara, di Largo Ferrovia, di Via Salice, di Via del Corso, di Piazza Vittoria e di Piazza Vittorio Emanuele, si attorcigliarono in un immenso ammasso di rovine sanguinolenti.

   Le vittime del terremoto furono tante!

   Nella sola Lioni, con il piccolo Miniero e la madre, persero la vita altre 246 persone.

                                                                                                       

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