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«Voglio dirvi quello che ho visto tornando in Irpinia a casa mia»

Il trentennale del terremoto dell’Irpinia

(23.11.1980 – 23.11.2010)

Ricordare e raccontare. Avere memoria di quei giorni e di quegli anni per non dimenticare la tragedia, il dolore, la speranza, le aspettative, il disincanto di un popolo. L’associazione culturale “Palazzo Tenta 39″,  nel commemorare il 30° anniversario del sisma che sconvolse l’Irpinia e la Basilicata, pubblica sul proprio sito web alcune testimonianze documentali di suoi concittadini. Il tutto al fine di  stimolare riflessioni analisi e confronto su ciò che è stato e ha rappresentato il terremoto del 1980 per le comunità del cratere.  Chiunque potrà intervenire, raccontare la propria storia, manifestare le proprie sensazioni, esprimere la propria opinione. 

La redazione

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«Voglio dirvi quello che ho visto tornando in Irpinia a casa mia»

17.11.2010, Prof. Gennaro Cucciniello

Articolo pubblicato sul giornale “l’Unità” il 27 novembre 1980
(tratto dal sito del prof. Gennaro Cucciniello: www.gennarocucciniello.it)

 

Sono le 22 e 10 di martedì 25 novembre; sto accampato, vicino ad un fuoco nella campagna di Bagnoli Irpino, un paese della provincia di Avellino, risparmiato chissà come dal terremoto. Le case sono lesionate, c’è stato qualche crollo ma non ci sono vittime.

Sono nato qui, da qualche anno vivo e insegno a Mestre, sono consigliere comunale comunista a Venezia. Dalla televisione, nella tarda serata di domenica, so di un terremoto in Basilicata con epicentro a 10 km ad est di Eboli. La cartina presentata in TV contiene –all’interno del primo cerchio dell’epicentro- Bagnoli, il paese dove vivono i miei genitori. Decido di partire: non so cosa troverò, vado alla ricerca. Prendo accordi con mio fratello che vive a Varese e convergiamo su Bologna. Di lì, nella nebbia, andiamo verso sud. E’ lunedì sera quando arriviamo ad Avellino; usciamo dall’autostrada; percorriamo Atripalda e i paesini lungo la via Appia. Non c’è anima viva per le strade; anche il casello autostradale era vuoto, abbandonato; la gente è accampata intorno ai fuochi; non c’è polizia né carabinieri; ho paura di strade dissestate, ponti crollati, frane. Ad Atripalda si incontra un poliziotto infreddolito; ci dice che non si sa se le strade siano percorribili, ignora se ci siano morti, ci augura buona fortuna. Per 40 km lo stesso spettacolo: silenzio, fuochi, gente attonita e severa, nessuna pattuglia, il traffico assente, case diroccate qua e là. Sono passate più di 24 ore dal terremoto. Prima domanda: dove sono le forze di sicurezza? Cosa e come hanno provveduto? Da Avellino, lungo quattro direttrici, si può raggiungere abbastanza facilmente l’interno: l’Avellino-Salerno; l’Appia che, tagliando proprio le zone disastrate, porta a Potenza; l’Ofantina che costeggia Torella, Sant’Angelo, Lioni, Calitri; la strada che per Ariano porta a Foggia. Staffette in perlustrazione avrebbero potuto dare in poche ore, dopo il disastro, l’esatta cognizione della situazione dei paesi alle autorità civili, militari e politiche di Avellino; i soccorsi si sarebbero indirizzati verso il centro delle devastazioni; centinaia di persone si sarebbero salvate.

Arriviamo a Bagnoli a tarda sera senza alcuno ostacolo se non una nebbia fittissima. Tremila persone sono fuori delle case, in un freddo polare, in ripari di fortuna. La mattina successiva, alle sette, si va a Lioni; sono passate più di 36 ore dalla prima micidiale scossa. Lo spettacolo l’avete visto in Tv, il paese non esiste più, raso al suolo. I superstiti guardano quello che resta delle case, tentano di scavare con le mani, con qualche piccone. Si sentono grida da sotto, invocazioni qua e là. Pochi soldati in giro, pochi vigili, due o tre scavatrici, in un paese che contava 5-6mila abitanti e che per metà è sotto le rovine. Palazzi di quattro piani ridotti a un metro o due di polvere e calcinacci. Su un montarozzo di pietre -quello che resta di un palazzo con dodici appartamenti- un vigile lancia un cane-lupo addestrato per fiutare la presenza di corpi sotto le macerie; il cane ulula frenetico, si tenta di scavare con vanghe, picconi, mani nude. Di tanto in tanto ci sono scosse, anche forti, ma che non impensieriscono più di tanto, mi sembra, quelli che cercano. Si comincia a sentire odore di putrefazione, in qualche posto particolarmente. Sono le undici di martedì 25 novembre: dove sono gru, escavatori, autoscale, ecosonde, tutta l’attrezzatura indispensabile in tali occasioni? Non dovevano essere previste, preparate e pronte per l’evenienza in una zona sismica come l’Irpinia che in cinquanta anni ha avuto tre terremoti, due dei quali con migliaia di morti?

Ora è notte, c’è una ridda di voci e di pensieri, scrivo su un cartone queste poche frasi. La gente intorno è silenziosa, prima qualcuno rideva sommesso. Ma continuo a chiedermi, ed è la seconda domanda: il viaggio che abbiamo fatto, dal nord verso l’Irpinia, alla ricerca di genitori, parenti, amici, non lo potevano fare, in molto minor tempo e con preziosa efficacia, i comandi militari di Avellino e Napoli, prefetti e funzionari, tutti coloro che erano preposti per ufficio al compito di prevenire, intervenire, soccorrere in casi di calamità naturali?

I consigli comunali sono stati l’unico punto di riferimento per la gente; a fatica, fra difficoltà inenarrabili, le amministrazioni –o meglio, quello che ne è restato- sono riuscite a coordinare il coraggio e l’energia delle popolazioni, dei giovani soprattutto. Ho visto a Lioni monaci cappuccini prodigarsi e lavorare fino al limite delle forze. I militari, i vigili hanno lavorato con sacrificio e un impegno senza limiti; mancavano però le attrezzature indispensabili. Un invito vorrei rivolgere alla stampa: registrare le tante storie individuali delle migliaia di protagonisti. La lettura di queste esperienze di vita vissuta darebbe la possibilità di scrivere una denuncia precisa e dettagliata di tutto quello che poteva essere fatto e, colpevolmente, non è stato fatto.

                                                                                                       

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