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Lago Laceno – Monte Cervialto: i limiti imposti dalla natura

18.02.2012, La scalata (di Angelo Mattia Rocco)

Le emozioni descritte e le foto esibite rappresentano per Bagnoli un impagabile spot promozionale (ndr).

Anche se alla vigilia di questa difficilissima escursione, il pensiero era rivolto proprio a quel tratto che sfortuntamante si è rivelato “fatale” nel finale, avevamo deciso, in ogni caso, di provarci. Le nevicate della settimana scorsa, hanno apportato un accumulo maestoso e importantissimo e ovviamente, il Monte Cervialto non poteva esser stato risparmiato dalla “valanga bianca”.

La partenza, come al solito e come un rituale definito, arriva dal Bar La Lucciola. Questa volta, già dai primi passi e dai primi sguardi si intuiva che non sarebbe stato facile. La strada per il piano l’Acernese scomparsa sotto oltre 150 cm di neve fresca, gli accumuli dello spazzaneve sui bordi della stradina antecedente il sentiero, altissimi. Il primo tratto dimostra già il suo aspetto arcigno. Neve soffice, dove le racchette sprofondavano senza riuscire a dare un appiglio facile e leggero. Passi pesantissimi, affanno forte di un fiato spezzato malissimo, gambe già rigide e bloccate da un venticello gelido. Il cuore pulsava fortissimo, quasi a voler uscire dal petto e solo qualche cambio in testa alla fila ci permetteva di faticare di meno, sfruttando a turno la scia già battuta precedentemente dall’altro compagno.

Il piano l’acernese viene raggiunto in oltre 30 minuti, un tempo che cade come un macigno sul nostro morale. Impiegare un’ora per raggiungere l’imbocco del sentiero al Colle del Leone non prometteva nulla di buono. Eppure, la compagnia composta da 3 persone (Angelo Mattia Rocco, Francesco Maiorano e Vito Meola), non ha ceduto alle prime fatiche, ed infatti continuando lungo un impervio sentiero a piano dei Vaccari si è diretto verso, l’ormai invisibile, sbarra d’inizio sentiero. I tratti all’interno della faggeta venivano spezzati da imponenti “strutture” di neve lavorate dal vento, in alcuni punti fortunatamente il ghiaccio permetteva una salita più agevole, ma anche quella sensazione di benessere era poco duratura.

La strada saliva sempre di più, il dislivello reso sempre più duro dall’accumulo imponente e i passi che dapprima risultavano pesanti, diventavano “impossibili” nella loro determinatezza. Man mano che si saliva oltre all’accumulo aumentava la neve posata sugli alberi e già dai 1400 m, dove abbiamo goduto di un panorama mozzafiato verso i monti Picentini, si aprivano dinanzi agli occhi gallerie di alberi accasciati. In questo tratti un po di slalom e tanta determinazione hanno permesso un passaggio abbastanza rapido, ma il peggio doveva ancora arrivare.

Verso le ore 13.30, riusciamo a raggiungere finalmente il Valico di Filicecchio dopo aver oltrepassato un fittissimo bosco di faggi giovani; sostiamo, pranziamo e recuperiamo energie mentre il grecale ci intimidiva e indeboliva e la mia gamba peggiorava sempre più per un forte dolore al nervo, probabilmente stizzitosi qualche km prima. Gli ultimissimi passi dopo aver ripreso forze ci conducono al sole del sentiero che porta al belevedere sul Polveracchio e in pochissimi altri passi all’ingresso della Faggeta grande di Filicecchio, li dove il Monte Cervialto ha posto il suo limite invalicabile coni suoi 350 cm di neve. Alberi piegati dal peso della neve formavano un labirinto impossibile da penetrare. Le racchette da neve si incastravano ad ogni passo in rami che fuoriuscivano dalla neve all’improvviso e dopo aver impiegato circa 40 minuti per superare un brevissimo tratto, è arrivato lo stop impostoci dalla natura.

Tanta delusione, tanto sgomento e minuti passati fermi, impassibili a guardare quel punto che con tanta fatica e sacrificio avevamo raggiunto. Mentre i pensieri ci tormentavano e la delusione ci avvolgeva, il sole cominciava a calare e cosi abbiamo dovuto necessariamente battere in una ritirata che di sconfitta ha ben poco. Erano le 14.30. Durante la discesa, effettuata con tagli nei tratti più ripidi del costone Nord Est, il Monte Cervialto, come in un sussurro sembra ci abbia incoraggiato, mostrandoci che a volte la natura ci obbliga a desistere e forse non lo fa per “dispetto” ma per un disegno ben preciso che è difficile da capire.

L’ultimo sguardo dal piano l’Acernese alla vetta, quando ormai la fatica aveva avvolto ogni parte dei nostri corpi, ha lasciato in noi una sicurezza: prossimamente ci riproveremo tentando una nuova via ai 1600 m, già studiata sulla carta.

Il reportage fotografico

                                                                                                       

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