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Il dopo Fukushima, depressi e disillusi nel Paese del grande choc

11.03.2012, La Stampa (di  Bill Emmott)

E’ stato un anno di straordinarie ondate emotive. Quando si diffuse la notizia del terremoto, poi dello tsunami e dell’incidente nucleare nel Nord-Est del Giappone, l’11 marzo 2011, la prima reazione fu un misto di shock, stupore e solidarietà.

Come poteva un Paese ricco e sviluppato essere improvvisamente devastato da una catastrofe naturale di tale portata, nel bel mezzo di un normale venerdì pomeriggio? Grazie alla capillarità degli smartphone e delle fotocamere digitali, questo è stato anche uno dei disastri naturali più ripresi nella storia, così tutti potemmo assistere con orrore all’onda che spazzava via l’entroterra, abbattendo edifici alti e trascinando con sé flotte di auto e di barche.

Come s’iniziò a capire che erano rimaste uccise migliaia di persone – il numero ufficiale oggi, un anno dopo, è 19 mila, di cui più di tremila ancora elencate come disperse – la nostra reazione fu di tristezza. Ma poi il film mostrò la risposta della popolazione all’emergenza, e il rapido intervento delle forze armate giapponesi e della polizia. Questo mutò la nostra emozione in ammirazione, soprattutto per lo stoicismo mostrato dalla gente.

Ma l’ammirazione si tinse rapidamente di paura, quando si diffuse la notizia dell’incidente nucleare alla centrale energetica di Dai-ichi, a Fukushima. I reportage televisivi non si concentrarono più sulla costa devastata, ma si spostarono sull’esplosione a Fukushima e l’eventualità di una nuova Cernobil. Alcuni residenti stranieri, tra i quali purtroppo anche alcune ambasciate europee (ma non quelle inglesi e italiane), cominciarono a lasciare Tokyo.

Poi, accadde una cosa strana. O almeno, è strana per un giornalista che è infinitamente curioso degli altri Paesi e dei postumi delle crisi. La cosa strana è che, non appena divenne chiaro che la centrale elettrica Dai-Ichi di Fukushima in realtà non stava per esplodere provocando ulteriori devastazioni, gli stranieri persero interesse per il disastro giapponese. Le troupe televisive fecero le valigie e se ne andarono. Il Giappone fu più o meno di nuovo dimenticato.

Non, naturalmente, dai 120 milioni di giapponesi. Da allora le loro emozioni hanno continuato a oscillare in modo incontrollabile. In questo momento sembra che queste emozioni siano dominate da due sentimenti principali: depressione, nella grande area devastata, per la mancanza di progressi nella ricostruzione di città e villaggi, e disillusione, al confine della diffidenza, verso il governo.

È difficile stabilire quanto si debba essere critici per la lentezza dei progressi nella ricostruzione. Dopo tutto, il terremoto che ha sconvolto L’Aquila ha avuto luogo nel 2009 e la città italiana non è ancora stata ricostruita. La devastazione giapponese è stata su scala molto più vasta, ha distrutto completamente comunità, porti e terre coltivate lungo una striscia costiera fino a dieci chilometri di larghezza e oltre 300 di lunghezza. In quella zona, gli edifici non erano solo danneggiati, come accade in un terremoto. Sono stati completamente distrutti, come colpiti da decine di bombe atomiche. Per questo non potevano essere ricostruiti, nemmeno in parte, in appena un anno.

Tuttavia, quello che ho provato quando a ottobre ho rivisitato parte della zona devastata, la stessa che avevo visitato meno di un mese dopo lo tsunami, è stata la mancanza di speranza, la sensazione che le città non saranno mai ricostruite. I detriti sono stati eliminati, ma si trovano ancora in enormi cumuli. Per i residenti evacuati sono stati costruiti alloggi temporanei, ma spesso lontano dalle loro vecchie case. Sono sempre in corso di elaborazione e discussione piani per ricostruire le comunità, ma finora ben poco è stato messo in pratica.

Lo stesso accadrebbe nella maggior parte dei Paesi occidentali, forse in tutti. La politica e la burocrazia si aggrovigliano l’una con l’altra, soprattutto di fronte a un compito di tale portata. In Giappone, però, le persone hanno imparato ad aspettarsi di più. Sono cresciute credendo che il loro Stato, il loro governo, fossero efficienti e fattivi. Quello Stato, dopo tutto, aveva ricostruito il Giappone dopo il 1945, facendone uno dei Paesi più sicuri, più confortevoli e più ricchi del mondo.

La disillusione verso lo Stato giapponese, per la politica come per la burocrazia, cresce ormai da due decenni. Nel 1990, l’incapacità di rispondere con successo alla crisi finanziaria che aveva colpito il Giappone scosse la fiducia della gente nel governo, così come una serie di scandali, inclusi diversi piccoli incidenti nucleari. Ora, però, la confusione del dopo disastro, combinata in modo dirompente con la crisi della centrale nucleare Dai-Ichi di Fukushima, ha distrutto la fiducia nel governo, quasi come lo tsunami ha distrutto le comunità costiere.

Il contrasto con il settore privato è stato netto. La ferrovia ad alta velocità a gestione privata e l’aeroporto di Sendai, nella zona colpita dallo tsunami, sono stati riparati e riaperti nel giro di tre mesi. Il mondo, e i produttori giapponesi nel resto del Paese, inizialmente sono rimasti sconvolti vedendo la dipendenza delle case automobilistiche e delle aziende di elettronica da componenti chiave realizzati in fabbriche che si trovavano nel Nord-est del Giappone.

In un primo momento, i proprietari di quelle fabbriche danneggiate avevano previsto che sarebbero state riaperte in un lasso di tempo di cinque-sei mesi dopo il disastro. In realtà, la maggior parte è stata riaperta molto prima. È stata una straordinaria prova di ciò che il settore privato giapponese può fare nel caso di una crisi, quando ognuno si rimbocca le maniche e si mette al lavoro.

La risposta politica e del governo è stata l’opposto. Inizialmente, la crisi ha prodotto forti richiami dei politici al senso di unità nazionale, inviti a sospendere i giochi politici e a dare una risposta collettiva al disastro. Ma quella prima coesione è durata solo poche settimane.

Da allora la politica è tornata allo stato disfunzionale, erratico e disunito in cui si trovava prima dell’11 marzo. Il Giappone ha cambiato il suo primo ministro cinque mesi dopo il disastro, e sia l’opposizione sia le grandi fazioni all’interno del partito di governo hanno costantemente manovrato per tentare di forzare la mano verso le elezioni. In un tale clima non sorprende che la pianificazione per la ricostruzione sia stata lenta, figuriamoci la sua attuazione.

Questo ha anche rallentato la ripresa economica. Di solito dopo le catastrofi naturali, il Pil in un primo momento cade, ma poi rimbalza rapidamente perché il denaro viene speso in grandi quantità per la ricostruzione. Qualcosa del genere è successo subito, ma è stato neutralizzato dalle incertezze sulla politica e il governo, che hanno scoraggiato gli investimenti aziendali.

La più grande e più duratura fonte di sfiducia, delusione e incertezza è stata l’energia nucleare. Un trend positivo è stato rappresentato dalla maggiore apertura da parte del governo e da un coinvolgimento più attivo delle organizzazioni non profit e delle fondazioni nell’indagare che cosa è andato storto. Ma è stata scioccante la rivelazione di quanto fossero addomesticati e inadeguati i controlli di prevenzione per gli incidenti nucleari, della rete di complicità tra legislatori, politici, media e affari per coprire i pericoli, di quanto il Paese sia stato vicino a un disastro ancora peggiore.

Questo fa sì che in Giappone delusione, sfiducia e persino rabbia siano le eredità emotive più durature dell’ultimo anno. Ci vorrà molto tempo prima che quelle emozioni svaniscano. Tuttavia, un’altra emozione importante non dev’essere trascurata: è la tristezza per la sorte di quelle 19 mila persone in quel giorno incredibile di marzo, un anno fa.

                                                                                                       

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