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Emergenza nazionale

04.05.2012, di Massimo Gramellini (La Stampa)

Prima si impiccavano ai cornicioni delle loro fabbriche e scivolavano nelle pagine di cronaca nera, mentre al telefono il ministro domandava incredulo «sicuro che dietro non ci sia un’altra ragione?». Allora hanno cominciato a darsi fuoco per la strada pur di elemosinare l’attenzione di una politica ripiegata sul proprio grasso e di un governo troppo concentrato sui numeri per riuscire a comprendere le persone. Ma da ieri il dramma «Io non ce la faccio più» esplora un nuovo abisso: l’irruzione di un disperato nell’Agenzia delle Entrate con le armi in pugno. E poi gli ostaggi, le forze speciali: sembra terrorismo, invece è terrore. Il terrore che afferra e confonde un uomo solo, quando non riesce a immaginare per sé altro futuro che un muro nero.

Non si sa cosa debba ancora succedere perché i governanti sollevino la testa dai tabulati di Borsa e prendano atto che esiste un’emergenza umanitaria nazionale. Un terremoto economico e morale che va affrontato con gli strumenti della vera politica: buonsenso e visione del futuro.

Lo Stato ha due mani: una che prende, una che dà. Se ne usa una sola, diventa monco e sono gli Stati monchi a produrre le ingiustizie più efferate. Per un artigiano o un piccolo imprenditore, il funzionario delle tasse che mette le ganasce all’auto e il funzionario del ministero che paga a trecento giorni quando paga, non sono due universi lontani e incomunicabili (come invece essi si considerano), ma due volti della stessa amministrazione. Due nemici che marciano separati per colpire uniti e vanno ad aggiungersi alle banche che non prestano soldi, anzi chiedono a chi è in rosso di rientrare, alle bollette dell’energia più cara d’Europa, ai doppioni e alle doppiezze di una macchina burocratica costruita a strati per agevolare i pedaggi della corruzione, a una giustizia civile dai modi ingiusti e dai tempi incivili.

Ma le ragioni più profonde della disfatta umanitaria in corso non riguardano solo gli imprenditori e non sono neppure economiche. Sono psicologiche. Il senso di umiliazione che prende alla gola chi si vede costretto a ridurre il tenore di vita della propria famiglia. La solitudine di chi non ha più strutture familiari né sociali a cui appoggiare la propria inquietudine. Soprattutto la disperazione cupa di chi non riesce più nemmeno ad alzare la testa perché quando la alza non vede una classe dirigente che indica soluzioni, ma una casta di parolai abbarbicati ai propri privilegi e una processione di sacerdoti del libero mercato che officiano una messa triste, fatta di numeri senz’anima.

Le persone più fragili si disperano fino a impazzire perché il potere non li ascolta e quando parla non usa il linguaggio della speranza ma quello della paura. Risanare l’economia di un cimitero non è una soluzione praticabile. E la legge darwiniana del liberismo non può selezionare i suoi protagonisti sulla base di impazzimenti e suicidi. Tocca alla politica, o a chi ne fa le veci, togliere la buccia ai numeri fino a trovare le persone. Capirle. Rassicurarle. Distinguere fra evasori totali con yacht a carico e poveri cristi che si arrabattano da italiani, non da tedeschi, e per i quali il rigore alla tedesca è una cura che guarisce il male ma uccide il malato.

                                                                                                       

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