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Corrispondenza estate 2014 con Nello Parenti (terza parte)

28.11.2014, Il racconto (di Alfonso Nigro)

4  –  ZI LURENZU BUCCINO E LA BIBLIOTECA MMIEZZ’A LA CHIAZZA

Nella mia infanzia a Bagnoli uno dei miei luoghi dell’anima è la selice, dove in Vico D’Aulisio,  abitavano, come già detto, i miei nonni materni, Aniello re lu sinnecu e Angiolina la pecurara. Con la bella stagione, tutti li iuorni roppu mangiatu, ci jeve a pazzià, cu fratemecucini e na banda r’ati guagliuncieddi re la selice.

Ero diventato un tormentone per Cicirenedda, Sciannacchera e Cristina, pecchè cu l’ammuìna che facevemu, ‘ste vicchiaredde  non putievenu fa’ lu scapizzu (la siesta pomeridiana), cu la capa janca pucciata ‘mpiettu ‘ngimma a re suggiuledde, ‘nnanzi a re porte re re case loro  a ‘nchianterrenu. ‘Nge pigliavene cu la scopa e ‘nge teravene appriessu scarpuni e cianfitti, mentre Mariuccia, la perpetua re l’arciprevutu De Simone, ce renchieve r’acqua cu lu vacilu.  Allora ce ne ievime a ghiucà a sparà e sparà arretu a Santamanecarita, int’a li Agnisi, a lu casalicchiu e a li cievizi finu a Santuruminicu, dove sotto il peristilio del convento avevamo stabilito il nostro quartiere generale.

Per raggiungere la selice ra casa mia a lu Capalanaru passavo davanti  a lu caffè re lu Pintu in corso Garibaldi  e  a  lu cafènnuovo re Giorgiu a lu vavutonu, dove mi soffermavo davanti alle vetrine: con l’indice della mano destra toccavo il vetro in corrispondenza di caramelle, cioccolatini e dolciumi vari e poi lo portavo alla bocca, dicendo: tutti  ‘mmocca a mme, tutti  ‘mmocca a mme!

L’ultima sosta  la facevo ‘nnanzi a lu cafè re Lurenzu Buccino a la chiazza, che si trovava sull’ampio marciapiede antistante la casa di proprietà re Cietta  re Zirpulu, posta tra quedda r’ Aniellu re Lullu,  a la urlicedda, e quedda re Cicciulupu, all’ucculu re la selice. Prima re lu  cafè c’era il comando delle guardie comunali e lu purtonu re la casa, dove al secondo piano ci abitava il segretario comunale Troisi, e appriessu la puteca di mercerie re Parruddonu.

Su quel marciapiede, a ridosso re la puteca re robba re mangià r’  Aniellu re Lullu, c’era pure lu pisciaturu re Vagnulu, costituito da una edicola in struttura interamente di ferro, a tre orinatoi murali, a cui si accedeva dal lato della piazza e se ne sortiva dal lato opposto adiacente alle guardie comunali. Davanti all’entrata, per tutta la sua larghezza ed oltre, c’era a protezione della privacy degli utenti, un ampio paravento anch’esso di lamiera di ferro sforacchiato in più punti, a causa delle schegge delle bombe cadute nella piazza di Bagnoli in occasione dei bombardamenti degli alleati di fine settembre del 1943.

Da quei buchi, ragazzi terribili, spiavamo curiosi le manovre degli uomini che vi si recavano per i loro bisogni. Peppu la uardia che abitava int’a lu vicu d’Aulisio dirimpetto alla casa dei miei nonni, ci perseguitava con un bastone chiamandoci monelli e “zuloni”, accostandoci  ai selvaggi Zulu che forse aveva conosciuto combattendo in Africa Orientale.

Lu cafè re Lurenzu Buccino non era fornito come i precedenti, la vetrina appannata per l’incuria era piena solo di polvere; dall’esterno si potevano vedere allineati su un alto bancone posto immediatamente di fronte all’entrata, diversi buccacci e grosse palle di vetro pieni di confetti, cioccolatini e caramelle di varie forme e colori, e all’interno altre mercanzie ‘ngimma  a re scanseje, nonché una bilancia a cassetta con piatti di ottone e relativi pesi.

Erano i tempi in cui i di Bagnoli, Ronca, re lu scinziatu, re quedda re Biasu re Amatu ed altri,  erano stati soppiantati dai più moderni (Bar Roma, Bar Laceno, Bar Centrale, Bar Italia); il caffè non si faceva più con la caffettiera a mano, ma con le nuove  macchine automatiche (, , o ), con le quali il caffè era ; da tempo Pascarieddu e Pascaredda non venivano più a Bagnoli d’estate a fa’ la subbetta ‘miezzu a la chiazza; il gelato si faceva nei bar centrifugando in un grosso cilindro di alluminio, rimestando con una paletta di legno, acqua, ghiaccio, zucchero, succo di limone, caffè, vainiglia, fragole ecc.. Unica eccezione era Giorgiu a lu vavutonu, a proposito chissà perché si chiamava lu cafennuovo, che continuava a fare il gelato con il vecchio sistema, utilizzando neve e ghiaccio, che d’inverno ‘ncatastava e stupava per l’estate in apposite fosse in montagna.

Zi Lurenzu, invece, nonostante i suoi magrissimi guadagni, si ostinava a tenere aperto il suo caffè, non volendo rinunciare al privilegio che gli  derivava  dal fatto di stare ‘miezzu a la chiazza re lu paesu, come in un palco a teatro, per godersi lo spettacolo che, già da allora, artisti, teatranti e guitti, occupati e disoccupati, claques politiche, laiche e clericali del paese, replicavano ogni giorno dal mattino presto alla sera tardi, in piazza Leonardo Di Capua.

Ma alla fine anche zi Lurenzu dovette arrendersi al progresso, abbasciavu la saracinesca mmiezz’a la chiazza e a malincuore si trasferì in una puteca sotto casa sua int’a li Agnisi. Grande perciò fu la mia sorpresa quando qualche tempo dopo sulla porta dell’ex caffè comparve l’insegna .

Il Comune aveva, infatti, istituita una biblioteca pubblica ed aveva affidato l’incarico di bibliotecario a zi Lurenzu, pensionato di guerra e di una qualche istruzione, che aveva accettato di buon grado, per una ragione economica e anche perché ciò gli permetteva di ritornare in piazza.

Fuori, nella vetrina riverniciata e lucida, erano esposti libri e romanzi, vari per formato e rilegatura, che subito destarono in me un interesse superiore a quello dei dolci che vi erano prima nel caffè. All’interno c’era adesso una grande libreria con vetrinette a vetro e a grate di ferro che occupava tutta la parete sinistra e quella di fronte, mentre la parete di destra era sgombra e ad essa si appoggiava di lato il vecchio bancone. Il retro del bancone, su una larga pedana di legno, era costituito da un piano scrittoio sul quale si trovava un grande registro per l’annotazione dei libri dati in prestito per la lettura, un calamaio, due penne con pennini di metallo a cavallotto e un tampone di carta assorbente. Il piano e il bordo del bancone risultavano in più punti bruciacchiati da sigari dimenticativi accesi.

Appena entrati nel locale ti prendeva un pizzicorino al naso per la puzza di tabacco bruciato, di muffa, di carta umida e di legno marcescente.

Ogni giorno zi Rosa, la moglie, andando da Aniellu re Lullu a fare la spesa, dove anche mia madre teneva la libbretta re la crerenza, gli faceva visita e gli chiedeva premurosa: <Bè, Lurè, oie che vuoi mangià?  Gabriele vole li maccaruni, re vuoie puru tu?>. .

Nelle belle giornate, zi Lurenzu, era solito sedersi davanti alla  biblioteca, debordante con la sua corpulenza su una sedia che sembrava dovesse schiantarsi da un momento all’altro, in un tappeto di espettorati, ri ‘mpicci cunzumati, cenere e rimasugli di tabacco. Sotto il suo bel faccione da plenilunio, in una capoccia pressoché calva, radi capelli grigi gli ornavano solo la zona occipitale, lu vruccularu gli copriva il collo della bianca camicia e il nodino fisso della cravatta con elastico  che sempre indossava sotto il  gonfio panciotto liso e grigio, ornato della catenella  del suo prezioso orologio a cipolla.

Di tanto in tanto estraeva dalla tasca laterale della sua larga giacca un fazzoletto grande cumm’a nu maccaturu re scorza per nettarsi dell’abbondante scialorrea. Accendeva in continuazione il mezzo toscano che gli ballava spento tra le labbra sottili e violacee, dimentico di aspirarlo, preso com’era dalla conversazione con i suoi amici più assidui, che nei pomeriggi estivi ospitava nel suo loggione privato: Riccardo Trillo, invalido di guerra, ciclista amatoriale, appassionato di fotografia e animo di poeta, e Agnello Rogata (Nasonu) valente sarto ‘nnanzi a lu vavutonu.

Talvolta al trio si univa anche Amedeo Varricchio che vi si intratteneva in piedi, giusto il tempo per un fuggevole saluto ai cari amici, poiché il suo lavoro lo richiamava con urgenza nella sua sartoria in Via Roma.

Riccardo, dopo le fatiche del mattino sulla sua bicicletta o a piedi per le strade polverose della campagna del paese, con i pantaloni alla zuava, calzerotti a rombi e scarpe da escursionista, con la fedele reflex a tracolla, nel pomeriggio, distintissimo ed elegante nel suo doppiopetto, si presentava in piazza a far compagnia a zi Lurenzu.

Riccardo, taciturno, impettito, le labbra serrate, curatissimi baffetti grigi, lo sguardo severo sotto le sopracciglia cespugliose, capelli grigi e lucidi tirati dietro la nuca, la mano destra appoggiata sulla coscia e la sinistra con il braccio teso davanti  a reggere il suo levigatissimo bastone da passeggio, piantato dritto a terra: sembrava essere in posa, lui fotografo dilettante, in una trasposizione di ruolo, davanti ad un ritrattista immaginario. Molto più a suo agio di zi Lurenzu, sulla sedia di fronte ma un poco più avanti, immobile, sembrava  la sfinge di Giza davanti alla piramide di Cheope.

Nel trio, la conversazione, naturalmente, era condotta da zi Lurenzu, poiché Agnello, con le gambe sempre accavallate e, sotto i larghi pantaloni i calzini smollati che tendevano a scendergli sulle carpe, si limitava a concisi commenti, mentre  Riccardo, con aria assorta, assentiva semplicemente con il capo.

A volte gli amici, già contenti solamente del fatto di stare insieme, rimanevano a lungo in silenzio, come se avessero da tempo esaurito ogni argomento di conversazione, limitandosi a rispondere solo ai saluti di passanti ossequiosi: cumma Lurè>, cumm’Agné>, ron Riccà>. Buona sera, buona sera, rispondevano in coro gli amici e subito volgevano lo sguardo alla piazza.

Ed io, azzezzatu ‘ngimma a re grale re lu maazzevu re Cicciulupu a fianco a Parruddonu, guardavo con una punta di invidia tutti quelli che entravano nella biblioteca con un libro e ne uscivano con un altro. Andavo di continuo a guardare i libri esposti nella vetrina, dando anche una sbirciatina dentro la biblioteca. Avrei voluto entrarci ma ne ero scoraggiato dallo sguardo indagatore e severo di zi Lurenzu.  Un giorno mi feci coraggio ed entrai. Zi Lurenzu mi apostrofò subito: <Guagliò, che vuoi?>. <Voglio  nu libbru>, risposi. si troppu picciriddu!>. La mia delusione fu grande, ma io non desistetti. <Ma nun’è veru, tu nu’ sai chi so’ io!>. Zi Lurenzu, indispettito, equivocando sul tenore della mia innocente affermazione, mi rispose, ancora me lo ricordo, con queste testuali parole: <Comu tu nu’ sai chi so’ io? io lo so invece, tu nu’ si autu ca nu fessu qualunque!>, accompagnandomi fuori con un braccio. Ci rimasi malissimo.

Si era a metà degli anni ’50 e, come già detto, frequentavo la scuola di avviamento professionale a Santu Roccu.

Allora per soddisfare il mio incontrollabile desiderio di leggere, mi dedicai a li giurnaletti, i fumetti che inizialmente venivano pubblicati nel c.d. formato ; me li ricordo tutti, ma proprio tutti, tra i quali: Carnera, l’Avventuroso, Nat il marinaio del veliero Santa Cruz, Commandos, Sciuscià (le avventure di uno scugnizzo nell’Italia occupata dagli alleati), Pantera, Piccolo sceriffo (Kit Hodgkins, Piggy, la sorella Lizzie, la fidanzata Flossie e suo padre Garrett, e il cane lupo Roki), Tarzan, Forza John, Tex, Tom Mix (e il fido cavallo Tony), Pecos Bill (e il suo cavallo Fulmine), Capitan Miki (con Doppio Rhum, il dott. Salasso, Susy e il nemico Magic Face), Il Grande Bleck (con Roddy Lassiter e il prof. Occultis), l’Intrepido, Il Monello, Cucciolo, Tiramolla, Topolino, Paperino e tanti altri ancora.

Scambiavo i miei fumetti con Mimì Cambria, lu nupotu re Paddaccola, e soprattutto, con Aniellu Russo re Cardogna, ‘ngimma a la via Nova, e i fratelli Pessacantannu re‘nnanzi a la ghiesia, Mencu e Salvatore Nicastro, i quali ne erano fornitissimi, potendoli comprare con i soldi che sottraevano ra lu tarraturu re puteche dei loro genitori.

Talvolta prelevavo furtivamente li giurnaletti dall’espositore che Peppu lu giurnalaiu collocava davanti alla sua edicola, ‘nnanzi a lu vavutonu. Li staccavo dalle mollette e correvo a leggermeli in un posto tranquillo e nascosto, per riporli, subito dopo, dove li avevo presi. Una volta che non riuscii a riporre un fumetto al suo posto, dovetti portarmelo a casa, a causa di Tommaso Di Capua, lu bidellu re scole mie r’avviamento a Santu Roccu, padre  re Peppu lu giurnalaiu, che ininterrottamente stazionava con il suo cane davanti all’edicola.

Con i fumetti a puntata, quannu Ciccillu re assu re coppe, che svolgeva il servizio postale Stazione-Bagnoli, portava i pacchi di giornali e giornaletti a lu giurnalaiu, aspettavo impaziente che Peppu li aprisse per comprarmi l’ultimo numero. In quel periodo leggevo di tutto, anche fotoromanzi per donne come Bolero film, Grand Hotel, Sogno che compravo con pochi soldi dal giornalaio dopo che questi ne aveva staccata la testata per la resa degli invenduti.

(continua)

                                                                                                       

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