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30.11.2010, Racconto di Alejandro Di Giovanni

(Premio Letterario “Il Tartufo d’Oro” 2010 – Secondo classificato)

Vagavo come sempre, ma quella volta lo feci anche fisicamente. In quelle verdi e nobili montagne cercai di ritrovare me stesso, o meglio di trovarmi per la prima volta. Decisi che dovevo concedere il tempo a me stesso, e a ciò che mi rendeva rigoglioso, pensoso e placido, quelle montagne mi parlavano di una umanità lontana e indecente, smargiassa e ridicola. In quei monti trovai la quiete d’ animo, la musica della natura mi librò, la sua vista mi commosse, i suoi odori mi estasiarono … Ero tutto: libero e felice. A trentadue anni abbandonai la mia vita sociale, tutti i miei averi materiali, una casa e un’ utilitaria, la moto e il conto in banca, mandai a quel paese il capo e  la sua megalomania per un lavoro che mi stava lentamente sfilando la vita, abbandonai  la mia ragazza … Persi tutto per essere tutto. Smisi di credere improvvisamente nell’ umanità e in tutto ciò che le consegue, nella società meschina ed ipocrita, nel sistema iniquo e paradossale: ho probabilmente immaginato di vivere, poiché solo dopo io ho vissuto davvero, e respirato a pieni polmoni l’autentica esistenza. Essere se stessi nella società non era più possibile, e il sistema di colpo mi sembrò una gabbia che si restringeva giorno dopo giorno sempre di più, io dentro vivevo come un canarino che meccanicamente sopravvive agonizzante.

Il problema di un cambiamento così repentino fu non tanto traumatico per me e le mie sensazioni, ma per il mio piccolo paese, chiuso ancora in retaggi di morale millenaria, così le mie spiegazioni divennero presto incomprensibili. Decisi di andare a vivere in una piccola vallata verde smeraldo a 1400 m. di altezza, in una casetta di legno abbandonata che tanto ispirava le mie percezioni, così da vivere in alto, magnifico e lontano, su quel monte dell’ Irpinia che dominava sul mio paese io mi ergevo e mi liberavo da tutte le inutilità e le beghe quotidiane, dalle questioni insensate che popolano un piccolo paese meridionale e bigotto.

Avevo perso un poco alla volta tutte quelle certezze e situazioni che fanno parte della vita: a venti anni smisi di credere nell’amore, ritenendo più importante un’ amicizia, a venticinque smisi di credere nell’amicizia per divenire un politicante eccentrico, a ventotto  anni abbandonai la politica che mi sembrò sempre meno in grado di apportare cambiamenti significativi e miglioramenti concreti alla collettività, mi dedicai a trenta anni ad una carriera di scrittore che troncai quasi sul nascere essendo continuamente infelice e sottomesso, smisi a trentadue anni di credere nell’ umanità … Ero per tutti un perdigiorno, un buffone, ma non me curavo affatto, poiché ero distratto dalla ricerca ostinata della bellezza.

Ad un certo punto non mi importò più dei significati imposti, della semiotica del mio tempo, mi sganciai letteralmente dalla scala sociale dei valori, così presi l’ essenziale per la sopravvivenza: pentole, casseruole, qualche bicchiere, alcune posate, degli ottimi coltelli da caccia, una montagna di accendini e fiammiferi, cibo in scatola, coperte, indumenti, libri, carta,  penne …, e lui, Nanni, il mio cane, un bracco di tre anni, abilissimo ricercatore di tartufi neri tipici dell’alta Irpinia; partii in una mite mattina di Aprile, e mentre il paese fermentava in piazza già di piacevole chiacchiericcio denigratorio o di insulsi argomenti imboccati dalla televisione generalista, io facevo tabula rasa!

Mi rimaneva da giocare la carta dell’ eremita, sarebbe stata questa la carta della tanto sospirata felicità? Si, e me ne resi conto da subito.

La casetta, alquanto fatiscente, la resi sicura e accogliente nel giro di pochi giorni: rafforzata nei punti nevralgici, l’ arredai con tavolo e due sgabelli di faggio, un appendiabiti e tanti oggettini che mi divertivo ad intagliare quotidianamente. Nanni era eccitato più di me, sembrava il dominatore della montagna, scorazzava felice abbaiando con forza agli ululati che provenivano da lontano. Le prime settimane mi occupai di creare una dimora accogliente e funzionale, tutto era sistemato a dovere, l’ angolo dove dormire reso soffice da uno strato di erba e foglie, il posto cucina con tutti gli strumenti appesi a portata di mano, e perfino un’ amaca posizionata in modo da incantarsi guardando le nuvole o le stelle.

Vivevo nell’ estasi, e qualche volta pensavo fosse un sogno o il paradiso. I miei sensi rinvennero, tutti, gioivano, rabbrividivano, assistevo alle sfumature della natura che mutavano con le stagioni, il verde, il giallo, il marrone, il rossastro … La primavera regalava fiori variegati, dal viola all’ arancio, ma l’ autunno era la stagione che preferivo, mi trascinava in vortice di intensa riflessione che guidava la mia penna a descrivere tutto ciò che i miei occhi apprezzavano. I profumi, della pioggia o della terra, delle piante …  I suoni dei miei amici volatili che raccoglievano perbene i resti dei pasti, degli insetti canterini, il tatto di un prato; abbracciavo la valle spalancando le braccia e le gambe, accarezzavo la natura e tutta la sua essenza, la ingerivo a grossi bocconi, la inalavo attraverso prolungati respiri, e poi correvo con Nanni, così, attraversando alberi e dirupi, senza mai dovermi giustificare di quello che stessi facendo con nessuno.

L’esaltazione dei sensi ad un punto raggiunse quasi l’apice. Mi cibavo, oltre che di scatolame di vario genere e pasta, soprattutto di ciò che raccoglievo e che mi veniva gentilmente offerto dalla natura e dai suoi cicli: prodotti del sottobosco, deliziose more e  squisite fragoline, funghi di svariati generi, origano, rosmarino e spezie varie, e lui, quello che non esitai a definire immediatamente “ il divino”, l’ oro in bocca, il tartufo nero, la mia eroina quotidiana.

Ogni mattina con Nanni percorrevo chilometri e chilometri per poterlo vedere, annusare, toccare, e infine gustare in molteplici modi, dal prenderlo a morsi appena capitatomi in mano al mischiarlo con funghi e olio o prepararlo con la pasta.

Il divino mi rapiva, mi trasportava con i suoi sentori in un vortice di libidine assoluta, e Nanni divenne presto cosciente di questo bisogno oramai divenuto primario, necessario, divenendo col tempo sempre più bravo nel reperirlo e donarmelo.

Le giornate trascorrevano quietamente, come in una specie di valle dell’ Eden che non avrei mai abbandonato, ma per mero bisogno però dovevo per qualche ora abbandonare tale paradiso per rifornimenti indispensabili.

Accadeva più o meno una volta ogni stagione, legavo Nanni ad un faggio, e mi mettevo in cammino verso il paese. Il mio aspetto trasandato per la comunità era ovviamente indecente, capelli lunghi che mi cascavano liberamente dietro la nuca, barba folta, incolta e selvaggia, ma comunque non emanavo odori molto cattivi, certo nemmeno profumavo; nella piccola valle dove alloggiava la mia nuova vita vi era una sorgente d’ acqua che in alcuni punti formava delle vere e proprie vasche, lì mi lavavo, mi abbandonavo, e giocherellavo a schizzare Nanni.

Pagavo ciò che mi occorreva con i tartufi, e benché fossi cosciente del fatto che venivo costantemente truffato non mi importava, la mia montagna era una miniera, il mio cane un gran minatore, e poi mi appagava vedere i volti dei commercianti soddisfatti dell’ affare fatto,  guardando i loro occhi ingordi ed avidi  mi chiedevo a cosa serviva avere tanti soldi e contemporaneamente vivere in quella misera maniera, persone che rincorrono la ricchezza e si lasciano sfuggire la vita!

Ogni volta che mi rituffavo nella realtà del paese non vedevo l’ ora di ripartire, il vociare cresceva ad ogni posto che visitavo, e poi le domande, le considerazioni tutte uguali, e le risposte che svogliatamente rendevo; le preoccupazioni che udivo, le informazioni che ricevevo … Capii che non mi importava più del mondo, della società, della politica, non ero per nulla incuriosito, avevo i miei libri lassù, i miei scritti, le mie emozioni, Nanni e “ il divino”.

Un saluto ai familiari che ogni volta comportava una miriade di accuse, critiche e rimproveri e via da solo di nuovo verso la bellezza, verso quei tramonti che mi trascinavano nell’ incanto, verso le aurore che mi accecavano di fascino, a commuovermi sempre di tanta magnificenza e sontuosità.

Il ritorno risuonava attraverso il fruscio del vento tra le foglie come repentina rigenerazione, Nanni abbaiava alla mia vista, il mio nido era sempre lì, il paesaggio sempre da fiaba ed io felice di vivere tutto questo.

Autunno, stagione intrisa di profondità d’ emozioni, mesto e gaio, i fuochi all’ aperto, gli intensi scrosci, una bottiglia di vino, e pensieri sparsi come foglie. Poi l’ inverno, il duro, forte, virile, la mia prova di forza e resistenza, la neve nivea, il risveglio della vita in primavera che canta , suona e danza, e l’ estate, la luce, il mio corpo nudo, i bagni nella sorgente, il sudore.

Non mancarono sporadicamente visite, e non mi riferisco solo al mio caro mondo animale, ma anche a quello umano.

Giuseppe era un pastore con una cinquantina di pecore e cinque cani, a lui non sembrò pazza la mia idea di vivere la vita. In primavera ed estate passava due tre volte la settimana, in autunno ripartiva verso zone meno fredde.

Con lui ho trascorso momenti piacevoli, e benché non fosse molto colto  era una persona colma di bontà ed ingenuità, fuori dal mondo e dai suoi sporchi meccanismi, un uomo non corrotto dalla società, praticamente una rarità in quest’ angolo di mondo.

Lui mi donò formaggi e latte, io ovviamente ripagai con la mia moneta, ovvero “ il divino”. Imparò nella mia seconda primavera di residenza nella valle a leggere, nella seconda estate incominciò perfino a scrivere. Prima di partire, in autunno mi regalò un agnello che  accettai volentieri, anche Nanni apprezzò molto, dopo un paio di giorni divennero inseparabili, stavano sempre insieme, e ciò mi faceva davvero molta tenerezza, la chiamai Bianca.

Così la mattina io e Nanni incominciammo a bere del buon latte, e ben presto misi su una piccola stalla calda ed accogliente dove Bianca e Nanni dormivano quasi abbracciati.

Una notte d’ autunno, gustando dei divini tartufi neri dinanzi al falò, una volpe e due cuccioli si avvicinarono talmente a me che pensai per un attimo che mi volessero azzannare, erano affamati ma innocui, quasi docili, da quella sera incominciai a dar da mangiare di tanto in tanto a questa famiglia di volpi che Nanni faceva spesso scappare con scatti fulminei o improvvisi abbai.

Amavo e rispettavo tutti gli animali, tutti gli insetti, tutte le piante,

e mi sembrava che tutto il creato mi amasse e rispettasse a sua volta. Bianca cresceva bene sotto la vigile protezione di Nanni, alla terza estate ere diventata una splendida pecora.

Il mio caro nobilissimo tartufo oramai mi aveva assuefatto, lo preparavo oramai in tanti modi, e mi misi a produrre pure un ottimo liquore: si può dire che con esso io mi sostenevo mentalmente ma anche fisicamente, dato il suo valore commerciale del quale ogni tanto io facevo uso per avere ora un’ ascia nuova, ora una trapunta calda, ora una bottiglia di buon vino.

Se la felicità non è mai assoluta, era comunque arrivata ad un punto soddisfacente: cavalcavo per valli sterminate e boschi profondi respirando la letizia, volteggiavo ed in picchiata godevo, correvo nudo sull’ acqua ed accarezzavo tutti i fiori del mondo, avevo tutti i pensieri possibili da concepire, non avevo limiti.

Ora mi affido al vento, foglia in balia delle raffiche in attesa del riflusso ad ali spiegate!”-

“Ecco, questa è tutta la mia storia”, dissi alzando la testa ed incrociando gli occhi sbigottiti del dottore.

“Questa la mia storia fino alla quarta estate, quando in un torrido pomeriggio, durante un gradevole sonnellino, arrivarono all’ improvviso le autorità in uniformi più disparate, e molti infermieri in camice bianco che mi chiedevano di non reagire e di stare calmo …

Mi hanno immobilizzato come un matto pericoloso, hanno distrutto tutto ciò che avevo pazientemente costruito, hanno portato via Nanni, presumo in un canile, e Bianca …

Quando mi hanno prelevato e trascinato di forza, sono sicuro, ho sentito il bosco piangere!

Non capii lì per lì, ma ora realizzo, per tutti io sono un pazzo, poiché ho deciso di vivere diversamente, perché sono stato libero, perché sono un incosciente sognatore, matto perché diverso e sognatore, dottore?” Gli dissi.

Alzai di nuovo gli occhi, il dottore mi degnò solo di un ghigno.

Dopo tanto raccontare, non mi proferì una sola parola. Guardò un suo collega più giovane e scosse il capo, entrarono degli infermieri e mi portarono qui, in questa gabbia dove ho smesso di vivere da tredici giorni.

“Ecco, vedi Antonio, la società ha paura dell’ insolito, del differente, ma soprattutto ha paura che la gente possa ancora sognare di vivere in maniera dissimile da quella corrente, le persone hanno perso la capacità di immaginare e sognare, i pazzi sono loro, non io e te, capisci?”

Antonio mi guarda triste, forse ha capito, forse no.

Guardo un attimo fuori dalla finestra, e non riesco più a lasciarmi trasportare dalle foglie, la mia immaginazione è piatta e ho smesso di sognare mondi diversi e libertà da rincorrere, sono guarito?

Me ne vado in camera, appesa nell’ armadio c’è la mia giacca grigia che indossavo nella valle verde smeraldo a 1400 m. dal mondo, la indossavo anche quel giorno che mi vennero a prendere, e la indosso oggi dopo quasi due settimane.

E subito mi sovviene un brivido, una scossa, un odore forte mi inebria la mente, e i sensi riprendono vita: “il Divino”, “l’ oro in bocca”, il tartufo nero è qui, lo sento, metto una mano in tasca e .. Sì, la forma tonda e irregolare, sbriciola di terra, è lui.

Lo tiro fuori, molle ma incredibilmente conservato nonostante le quasi due settimane trascorse: nero ed elegante, forte e signorile.

Lo strofino sulla giacca e lo mordo con veemenza, il suo sapore mi rapisce e mi trasporta, chiudo gli occhi, e sono lì, dove vorrei essere, ancora una volta libero, un’ ultima volta vivo.

Nanni mi viene incontro gioioso e mi butta a terra, Bianca con delicatezza mi chiama, gli alberi mi abbracciano e il cielo mi avvolge, il sole mi irradia e gli uccelli cantano ancora una volta per me, tutto echeggia ancora.

Bussano alla porta che stridulamente si apre, mestamente si chiudono gli ultimi echi di un sogno infranto.

                                                                                                       

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