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Addio Niky

21.03.2016, Il racconto di Antonio Cella (da “Fuori dalla Rete” – Marzo 2016, Anno X, n. 1)

bambina-e-caneEra un cane dal pelo più aderente del solito, di colore rosso-fulvo, che in alcune parti del corpo, specie sul moncone di coda, sfumava in un giallo tigrato, tipico della razza. Era intelligente, fedele e obbediente, munito di una grande dignità, che sacrificava soltanto ai suoi padroni, che lo ricambiavano con sincero affetto.

Fin dalla tenera età, gli piaceva molto ruspare il terreno con le zampine e, nel soddisfare questa sua passione, scavava profonde buche in cui sotterrava tutto quanto gli si parasse davanti: ossa, pezzi di bambole, scarpe, barbabietole e cose varie che sull’aia di casa Nittis non mancavano mai.

Fu proprio questa passione di Niky per lo scavare a spingere il suo padrone ad indirizzare l’ animale verso un’attività remunerativa, che avrebbe consentito ad entrambi di unire l’utile al dilettevole come, ad esempio, cavare tartufi dal terreno anziché affossarvi in esso pannocchie di granoturco.

I Nittis vivevano alla periferia nord di Caposele, ridente cittadina irpina, famosa per le sue sorgenti che alimentano l’acquedotto pugliese. Il loro nucleo familiare era composto da Luigi e Marta, coniugi, e Dina, vezzeggiativo di Gerardina (nome dato alla ragazza in onore di San Gerardo Maiella che dalla collina di Materdomini, che sovrasta il paese, chiama a sé i fedeli di tutto il mondo), figlia unica di sette anni, compagna inseparabile di Niky.

Luigi, bracciante agricolo, dipendente precario della Comunità Montana Altirpinia, quando non era occupato nei lavori boschivi, si dedicava volentieri alla ricerca del tartufo nero, che nella zona nasce spontaneo, anche per via del buon guadagno che tale lavoro gli comportava, specialmente quando il consumo del prodotto era maggiore, come a Natale e in occasione di festività che cadono nel periodo invernale e primaverile. La richiesta delle trifole aromatiche, in tali occasioni, raggiunge livelli altissimi non soltanto da parte del grossista, che solitamente paga il prodotto “quattro soldi”, ma anche da parte degli indigeni, che sono adusi regalare tartufi in occasione delle grandi feste. Per Luigi Nittis “tartufare” non significava soltanto buon guadagno. Significava anche fruire il privilegio di godere la parte più intima della natura, fondersi con i suoi profumi selvaggi, i suoi pini e i suoi maestosi faggi (struttura vegetazionale dominante di quella parte dell’ Appennino Picentino” che nel Cervialto misura il suo massimo rilievo). Significava, altresì, vivere, godere il piacere di dissetarsi al rivolo serpeggiante tra le foglie morte; significava accorrere in aiuto di Niky quando, abbaiando, lo chiamava a sé perché lo aiutasse ad estrarre dal terreno un tartufo più grande del solito che, da solo, mai sarebbe riuscito a portare tra le fauci, o che, magari, si nascondeva sotto una inespugnabile radica. Niky era un professionista serio. Ogni tartufo che poneva nelle mani del suo padrone, era oggetto di scambio per entrambi. Tra l’uomo e l’animale c’era un accordo, un patto morale, che consentiva a tutti e due di guadagnarci qualcosa: all’uomo il tartufo, al cane una briciola di pane. Un negozio giuridico, insomma, che ufficializzava il baratto, e tutto funzionava alla perfezione. Nity, forte del patto, mollava il tartufo dalla bocca soltanto quando Luigi mostrava nel palmo della mano la ricompensa. Nel momento in cui, però, il cane si accorgeva che l’uomo (di cui si deve sempre diffidare) non rispettava il patto, rifiutava caparbiamente, e con santa ragione, di tartufare. E’ d’uso negli ambienti dei cercatori di non alimentare, nella sera che precede la preziosa cerca, il proprio cane. E’ una prassi alquanto crudele che però dà i suoi frutti, e consente al cavatore di ottenere il massimo rendimento da parte dell’ animale. Un tartufo per una mollichella di pane. E’ sempre l’uomo che ha la meglio nello scambio. Ma il valore è soggettivo: il pane è vita non solo per l’animale, e il tartufo consente ad entrambi di guadagnarsi di che vivere senza affannarsi eccessivamente. Il motivo per cui Luigi ricompensava il cane con una briciola di pane è facilmente intuibile. Un cane sazio si abbandona facilmente all’ozio (come, d’altra parte, fanno gli umani). E Niky era anche specializzato in grandi sonnecchiate ai piedi di Dina, specie nelle giornate uggiose di fine autunno. Nel nord Italia, nella zona di Alba, precisamente, preferiscono la scrofa al cane nella ricerca del famoso tartufo bianco che, a differenza del tartufo nero di Laceno e di Norcia, ha un aroma più delicato, più tenue, ma ha anche un costo elevatissimo (cinque-sei mila euro al chilogrammo). Sono, insomma, come veri e propri “diamanti mangerecci”. Alla scrofa, però, i piemontesi non elargiscono nessun compenso poiché la stessa è troppo poco intelligente per capire il valore del tartufo. Il risultato, tuttavia, non cambia. I motivo che induce le scrofe a scandagliare e scavare le viscere della terra è di natura squisitamente sessuale. La causa scatenante del desiderio sessuale scrofista è racchiusa in una sostanza, insita nel tartufo, propriamente detta: ”feromone muschiato”, che abbonda nelle urine dei maiali. Ed è proprio dal feromone che si enuclea l’aroma del tartufo. Quell’aroma ineffabile, ruvido e al tempo stesso delicato, che conquista il palato al primo assaggio. Non a tutti, però, piace il tartufo. Così come non a tutti piace il caviale. L’accostamento dei prodotti è d’obbligo poiché, a prescindere dalle qualità indiscutibili, uniche degli stessi, hanno un prezzo elevatissimo. E, forse, è proprio l’alto costo a renderli appetibili, ricercati non soltanto da chi ha buon gusto ma anche e soprattutto da chi, pur di allinearsi al modus vivendi, ai consumi dei più ricchi, delle classi elitarie, spende e spande per il piacere di non essere da meno. Certo, si deve avere molto poco rispetto per il proprio palato se, per mero appiattimento ai gusti altrui, ci si ingolfi di palline glabri, puzzolenti e rugosi tuberi dal sapore di acido fenico. Ma, ai più, il tartufo piace proprio perché è cosi: puzzolente. Niky, per atavico automatismo, tentava spesso di mangiare il frutto della sua ruspata, in barba ad ogni patto stipulato con Luigi. E qualche volta, Luigi, glielo consentiva volentieri, non foss’altro per irrobustire nel suo amico a quattro zampe la concupiscenza, la morbosità verso la perla macu1ata. Ma, quando la “degustatio” straripava nel desiderio di appagare il bisogno di esistenza, i morsi della fame, per Niky si metteva male. Luigi gli riduceva, allora, drasticamente la razione di pane e lo costringeva ad incrementare il ritmo delle cavature per compensare le entrate. Era duro, per Luigi, prendere certe decisioni. Amava Niky come un umano e, umanamente, quando era costretto dalla necessità a sgridar lo, a torcergli l’orecchio tra le dita con amorevole veemenza, provava un pungente dispiacere. Quando il terremoto del novembre ’80 triturò le case e i corpi degli irpini, Niky e Luigi erano, al solito, nei boschi per tartufi, nonostante l’ora tarda. Era uno splendida giornata di sole, uno pomeriggio caldo, quasi primaverile. Si stava bene anche nei punti più umidi della montagna. Niky tartufava con la solita lena, e già il tascapane di Luigi cominciava a pesare. Di quando in quando, però, Niky smetteva di scavare e si accovacciava tremante ai piedi di Luigi, come se preso da improvviso attacco di panico ( refolo di vento prima della tempesta? ).

< Dai!, cialtrone, alzati! Cos ‘hai! Non vuoi più aiutare il tuo padrone? Dina ti aspetta. Muoviti!>.

Fu proprio a Dina che Luigi attribuiva colpa dell’improvvisa apatia di Niky. La ragazza, forse, aveva rifocillato, per compassione, l’amico del cuore, proprio quando lui intendeva affamarlo? Lungo la strada del ritorno a casa, Niky si tenne sempre accostato alle gambe di Luigi, tanto che questi lo richiamò più volte, per paura d’inciampare. Quando raggiunsero la piana di Sazzano (vasta e suggestiva cavèa coronata dalla vegetazione boschiva dei rilievi appenninici del Cervialto, del Cervarulo e dei vari “sierri”, tra cui quelli delle <guagliotte> e dell'<Impiccato>, famosi per la gran quantità di funghi porcini che producono durante la stagione estiva), erano circa le sei del pomeriggio. Nell’attraversare la piana per immettersi, poi, nel sentiero che li avrebbe portati nell’area caposelana, dove Luigi aveva parcheggiata l’Ape, l’uomo notò che una gran quantità di mucche e pecore stavano raggruppate, stranamente, testa a testa, come se dormissero in piedi, come fanno gli elefanti. < Come mai? >, si chiese Luigi. < Sono appena le sei. E’ l’ora migliore per brucare il trifoglio e la lupinella! Come mai son tutte qui? Hanno assunto la stessa postura strategica delle carovane dei pionieri quando nei films western si apprestano a difendersi dagli attacchi dei pellerossa >.

Aumentò il passo e, accompagnato dalla immaginifica colonna sonora del grande Morricone, si lasciò inghiottire nel sottobosco ramato, che si apprestava a trasformarsi in coltre ed in alimento pel terreno isterilito dalla siccità autunnale. Tutto il mondo sa cosa successe qualche ora più tardi. Ma non tutti sanno che sotto le macerie di quella tranquilla casa di campagna rimase sepolto il corpo della piccola Dina I primi ad accorrere sulle macerie, ancora calde di sangue e di lamenti, furono un centinaio di soldati tedeschi. Avevano con sè viveri, medicinali, coperte, ruspe, camions ed elicotteri e, con il calore umano, tanta voglia di riscattare i loro padri che, quarant’anni prima, avevano lasciato sul posto un cattivo ricordo. Un contingente di macchine umane, oseremmo definirlo, perfettamente compenetrato nella sofferenza e nella drammaticità in cui era calato il paese. Vento e pioggia, freddo e neve, non rappresentavano ostacolo alcuno all’azione dei giovani rampolli della Germania redenta. Smuovevano massi, tettoie e ponti. Trasportavano i feriti ai posti di pronto soccorso, e piangevano con i congiunti dei meno fortunati nel rimuovere le salme dalle profonde latebre di inconsistenti mura domestiche. Sull’aia che raccoglieva i resti di casa Nittis una collinetta di travi, blocchi di cemento, vetri e pietra viva, un gruppo di uomini muti vegliava il corpo maciullato di Dina. Dai loro volti traspariva dolore e disperazione: immagine fedele della loro vita interiore, materializzatasi a contatto della sofferenza. Niky non piangeva; non sapeva piangere così come fanno gli umani. Era irrequieto e lento nelle movenze. Aveva appena tre anni e già appariva come il vecchio Brik, il bastardo, che a quindici anni suonati si trascinava pel paese disseminando il pelo e la pietà della gente per la scheletrica sagoma, corrosa dal tempo, che aveva spento in lui la luce degli occhi e l’armonia dell’udito. Dal giorno che non aveva più giocato con l’amica Dina si era accucciato, conscio della disgraziata fine di lei, sul cumulo di detriti assassini con la testa poggiata sulle zampine, quasi prostrato, come chi supplica l’Onnipotente. Ma, dov’era Dio in quei momenti? Perché non era accanto all’uomo? Nella disperazione, l’uomo è vulnerabile: può alienarsi l’anima Ha bisogno, allora, di essere tenuto per mano. Dio lo ha creato senza il suo volere, e se non lo aiuta nei momenti di bisogno non otterrà mai, da lui, il consenso per poterlo salvare. Sì, paradossalmente, Dio ha bisogno del consenso dell’uomo per poterlo salvare. Niky sapeva che Dina era lì, sotto le macerie, e che ormai non era più di questo mondo. L’avrebbe mai più rivista? Se i cani hanno un Paradiso, forse sì. Poi, quando Hanz il tedesco recuperò il corpicino, Niky abbandonò la postazione e con lo sguardo spento si accucciò tra i piedi di Luigi che, a testa bassa, nel gelido nevischio di un inverno immaturo, scrutava quella parte di sé, in cui più non pulsava la vita. Poi, ad un tratto-guaì. Il suo lamento, quasi soffocato dall’aria gravida di lamine di ghiaccio, rese ancora più lugubre la scenografia dell’aia Si voltarono tutti a guardare la bestiola che, intanto, si strofinava sui pantaloni di Luigi e gli leccava le mani intrecciate in un nodo di disperazione. Come smarrita, la bestia fece il giro degli astanti; li scrutò uno ad uno, annusando loro le scarpe. Ritornò, poi, verso la bara bianca, con il codino inanimato, dal pelo lucente, che Dina aveva spazzolato ogni giorno, fin da quando lo aveva rapito dalla cucciolata per farlo suo compagno di giochi e, ahime!, di caduca vita. L’ultimo sguardo fu per colui che ormai rappresentava la copia vivente di un Cristo impotente, distrutto nel corpo e nell’anima. Si avviò, infine, verso la collinetta di sangue, che pietrificava la vita dell’aia. Luigi lo chiamò: si fermò per un attimo guardandolo con gli occhi vispi di un tempo. Poi scrollandosi il nevischio dal pelo, si avviò lentamente verso la piramide assassina.< Dove vai, Niky?>, gli gridò Luigi, < Vai a morire con Dina? Non mi lasciare anche tu!>. Il caporale Ranz, due giorni dopo, raccolse il suo corpo, come aveva fatto con Dina, sul calvario Di pietra che troneggiava nell’aia.

Niky aveva voluto seguire la sua padroncina.

 

                                                                                                       

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