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Intervista a Martin Di Lucia, “bagnolese dell’anno 2015”

23.03.20016, A cura di Federico Lenzi (da “Fuori dalla Rete” – Marzo 2016, Anno X, n. 1)

Terminata la seconda edizione del “Bagnolese dell’anno” e in attesa della cerimonia di premiazione, iniziamo con la prima delle due interviste per conoscere i ragazzi premiati. Con questo numero partiamo dal vincitore del Premio dei soci, Martin Del Lucia. Un’intervista in cui il nostro compaesano si racconta e racconta il suo paese, per poi tornare alla passione che l’ha portato alla candidatura. Abbiamo avuto dinanzi un interlocutore che ci ha spesso spiazzato con le sue risposte, attraverso un’intervista non proprio politically correct; con questo termine facciamo riferimento alla spontaneità intellettuale e non alle sterili battaglie a cui ci ha abituato questo paese. Insomma, non aggiungiamo altro, ma vi auguriamo una buona lettura.

 ***

Martin-Di-LuciaSi aspettava questo riconoscimento? Qual’ è stato e continua ad essere il suo rapporto con la sua comunità di origine?

In realtà, per il secondo anno consecutivo, ho scoperto di essere stato candidato leggendolo casualmente sul sito. La cosa mi ha nuovamente sorpreso, non essendo mai stato molto presente sulla scena pubblica, “di piazza” diciamo; deduco che il mio nome circoli più di quanto io stesso immagini, per via dei video credo (ride). Qual è l’altra domanda…? Ah no non ho nessun rapporto con la comunità.

Come immagina Bagnoli tra dieci anni? cosa sta facendo morire questa comunità e queste terre che ha accuratamente raccontato ne “Il paese” e “La provincia”.

Quando da bambini ci veniva chiesto “Come immagini il futuro? Come pensi sarà il mondo tra 10 anni?” si era sempre portati a pensare alle innovazioni tecnologiche, alle navi spaziali, alle macchine volanti e ai raggi laser. Fantasie infantili certo, ma un chiaro segnale su cosa realmente pensavamo quando immaginavamo il futuro, e non “come sarò io, come sarà la società”; riusciamo a pensare al futuro solo in chiave fantastica, ludica e speranzosa, e credo che ciò non sia cambiato neanche oggi. Ogni volta che pensiamo al futuro in questi termini, barattiamo la proiezione di noi stessi, come singoli e come comunità, con previsioni su come saranno i cellulari, se le macchine voleranno o se potremo tele-trasportarci. Abbiamo commesso l’errore di credere che l’avanzamento tecnologico corrispondesse ad un avanzamento della civiltà, ma non è così. Per questo non siamo stati capaci 10-15 anni fa di vedere il futuro che ci aspettava e che è divenuto l’attuale presente, perché abbiamo indissolubilmente e stupidamente associato alla fantasia, mentre la chiave giusta credo sarebbe stata quella di fare meglio ciò che stavamo facendo negli anni ‘80-’90, di non cullarci sulle certezze e le stabilità di cui godevamo all’epoca.

Per rispondere alla tua domanda, come sarà Bagnoli tra 10 anni? dipende da quello che decideremo di fare nei prossimi 10 minuti, e nei 10 dopo ancora.

Cosa sta facendo morire il nostro territorio poi mi chiedi. L’ingenuo entusiasmo con cui si farfuglia di valorizzazione o si sbandierano eccellenze eno-gastronomiche inesistenti è pericoloso quanto e forse più del disinteresse stesso, poiché collegato a quella distorta visione della realtà di cui dicevo prima. Credo che un primo passo possa e debba essere quello di “uscire” un attimo fuori, valicare il Ponte delle Tavole, andare a vedere, ammirare e studiare cosa c’è in posti simili o migliori del nostro; cosa fanno, come sfruttano le risorse di quei luoghi, da dove sono partiti; questo dobbiamo fare e applicare un modus operandi aggiornato al nostro territorio perché il tempo degli scarica-barile amministrativi lascia il tempo che trova, anzi, lascia tutto peggio di prima. Bisogna smettere di raccontarci che questa terra sia magnifica e stupenda, perché non lo è, non più. È doloroso e umiliante ma necessario, altrimenti continueremo a cercare di rianimare una carcassa in decomposizione, invece di compostarla e dare vita ad un nuovo organismo. Penso sia l’eterno guardarci indietro, l’accomodamento nel farci bastare il ricordo sfumato di antichi fasti di cui questa terra si è resa protagonista per breve tempo, vedi il Laceno D’Oro, ma parlare del paleolitico sarebbe la stessa cosa, e il che è tutto dire. Ma più di tutto credo sia la disonestà intellettuale di cui la comunità è gravemente affetta, dovuto ad una mediocre percezione della realtà, altrimenti non mi spiego questa sempiterna proclame sulla valorizzazione del territorio. Valorizzazione di cosa poi, non si è ancora capito.

Dopo il successo di “K” cosa dobbiamo attenderci per questo 2016?

Tenebre.

Negli ultimi mesi ha riscoperto la fotografia analogica, ci racconti quest’esperienza

Nell’era del digitale e della tecnologia a portata di click, pensare alla fotografia analogica può sembrare assurdo, lo so. Il digitale ha rivoluzionato il modo di fare fotografia rendendolo alla portata di tutti. La maggior parte delle persone utilizza lo smartphone per immortalare ogni singolo momento della propria giornata. Il gesto è così veloce che neanche ci pensiamo: scattiamo, aggiungiamo qualche filtro e pubblichiamo su Facebook o Instagram. È un meccanismo in cui siamo entrati tutti da qualche anno a questa parte. Ma dopo quasi dieci anni di digitale trovo l’intero processo analogico ancora interessante e fotograficamente eccitante, forse per quella dose di indeterminatezza che rende ogni scatto un possibile capolavoro o una grande schifezza. Succede la stessa cosa con il digitale, i giga e giga delle memorie permettono di scattare centinaia di foto e selezionarne poche meritevoli, mentre l’analogico restringe il campo a 24-36 scatti, il che porta a riflettere di più sulla composizione, sulle luci e soprattutto sul messaggio che si vuole trasmettere. Si entra in simbiosi con la macchina e si guarda veramente nel mirino. In analogico, lo scatto va “pensato”, soffermandosi a guardare la scena, chiedendosi se è il caso di farlo, oppure conservare la pellicola per un altro evento. Poi l’attesa dello sviluppo, la curiosità di vedere le foto, il tocco della pellicola… sono tutte piccole emozioni che ho ritrovato con la fotografia analogica. Senza contare il fascino indiscusso dell’immagine finale. In quest’epoca del “tutto e subito”, potrei fotografare tranquillamente con il telefonino o magari con una qualsiasi digitale e fare buone cose, cosa che faccio intendiamoci, ma quella pausa di riflessione che solo l’analogico sa dare è così piacevole che non posso resistere.

Recentemente assistiamo a un boom di fotografi amatoriali grazie ad “Instagram” e alle fotocamere digitali, cosa ne pensa?

Come dicevo, tutti fotografiamo ora che la macchina fotografica ha la forma di un telefonino. Ma questo ci rende dei fotografanti, non necessariamente dei fotografi, se per fotografo intendiamo chi ha una minima consapevolezza nel farlo. Tutti sappiamo cliccare un bottone e fare una foto, scambiando le fotocamere dei cellulari per macchine fotografiche vere. In effetti le foto scattate dai Galaxy e dagli iPhone sembrano incredibili. Le applicazioni permettono di correggere, saturare i colori, aumentare la nitidezza. Quelle foto finiscono sui social, con filtri e goffi tentativi di post-produzione. Sta accadendo il disastro concettuale per cui le foto non sono più normali, l’uso della post-produzione è una pacchianata gigantesca, la bellezza di una foto non sta più nella capacità imperfetta di riportare un punto di vista, non è più fatica di entrare nell’inquadratura con consapevolezza, ma è nel pacchiano che ha una sua ragione: l’uso sommato di grandangoli estremi e di colori saturi permettono un modo di “vedere” assolutamente innaturale. Mentre la bellezza non è mai perfetta, ed è per questo che non è mai innaturale. Con l’avvento degli smartphone fotografici era inevitabile che la fotografia finisse sul tavolo operatorio del lifting cromatico e compositivo, ma non credevo fino a questo punto. Si è formata una generazione che non sa più cosa sia il mondo reale, ma soprattutto non sa guardare, perché non rispetta la luce vera. Le correzioni illudono perché le si guarda su un piccolo schermo illuminato e si possono ammirare senza avere una sensazione sgradevole, perché le foto si vedono in un formato ridottissimo. Oltre quel formato sarebbero orribili, le foto degli smartphone sono instampabili. Le persone ormai da qualche anno consegnano i ricordi di vite intere a sistemi che scattano foto orrende, che non restano, perché si possono guardare solo come fossero al microscopio.

Credo che bisogna lasciare ai tramonti i colori che gli spettano, e guardare magari cosa sapeva inventarsi un Cartier-Bresson con un solo obiettivo 50mm e una pellicola in bianco e nero.

                                                                                                       

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