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Il chirurgo

22.02.2018, Il racconto di Antonio Cella (da “Fuori dalla Rete” – Gennaio 2018, Anno XII, n.1)

Antonio-CellaAmabile non era affatto un monello. Aveva un carattere spinoso, questo sì. Già nell’età fetale, movimentava il pancione materno con calci, pugni, graffi e tirate del cordone ombelicale, che spesso facevano contorcere dal dolore la gestante.

La poverina, che aveva avuto già due figli, non sapeva spiegarsi il fenomeno.

Quando era incinta di Antonietta, non si era mai accorta di avere in grembo un essere vivente, tanto era tranquilla e pacioccona la nascitura: mai un calcio, mai un movimento che facesse lontanamente pensare alla giovane madre di che pasta fosse fatta la creaturina che le gonfiava il ventre.

Ciò non significa, però, che dai movimenti del feto, si possano azzardare ipotesi sul futuro carattere del nascituro o sulle caratteristiche antropologiche dello stesso. Se così fosse, dovremmo dedurre che Diego Armando Maradona avesse fatto ”cose ‘e pazzi” quando si allenava nel grembo materno.

Da ricerche effettuate da curiosi, più che da studiosi, su donne che hanno avuto gestazioni movimentate, è stato rilevato che i protagonisti delle scazzottature placentali, una volta fuori dal grembo materno, hanno evidenziato tout court: intelligenza brillante e sicurezza di chi nella vita non teme ostacoli.

Certo, bisogna anche credere ai racconti su certi bimbi, veri o inventati, che, a causa della eccessiva vivacità, abbiano procurato, prima e dopo il parto, momenti di autentica disperazione alle loro madri.

Per non debordare dall’argomento, citerò un racconto di un mio amico napoletano, dalla fantasia fervida, riconducibile alla disperazione di una popolana incita all’ottavo mese, incontrata sul tram rionale in compagnia di un bimbo irrequieto e irrefrenabile, tanto che lui stesso fu costretto a redarguirlo più volte dopo aver ceduto il posto a sedere alla madre. E, nel ringraziare della cortesia ricevuta, la donna asserì: “Signò, o piccirillo è nu pucurillu vivace. Ma è sicuramente cchiù ‘bbuonu  e chisto autentico terremoto che portu rintu ‘a pancia. Dovete sapé che stu riavulu,  ogni vota ca me facciu o bidè, m’arrubba ‘o ‘ssapone”.

Amabile non rubava il sapone alla madre, ma era specialista nel combinare altri guai.

Dovete sapere che, lui, a cinque anni, per il solo piacere di indispettire le monache del convento di Sant’Antonio dove era stato claustrato nell’annesso asilo infantile, servendosi di un lattifero ramo di fico, “fece fuori” cinque galline dal pollaio del convento.

La tragedia fu accolta in famiglia con piacere e con dispiacere perché, alla consegna del corpo del reato, (cinque galline da mangiare era una occasione che capitava raramente) le suore pretesero il pagamento dei danni e una percentuale sul mancato ricavo relativo alla vendita delle uova.

Amabile era piuttosto genuino nella realizzazione delle sue “imprese”, che affrontava senza mai subordinare il fine ai mezzi. Otteneva quasi sempre quel che voleva.

Aveva una intelligenza superiore alla media, e un senso pratico che lo poneva al di là del confine dell’età puberale, riconducibile ad una disposizione cerebrale innata e a un intuito sensibilissimo che, astraendo da ogni forma di riflessione e razionalità induttiva, teneva sempre attiva in lui una presa di contatto diretto e immediato con la mente.

Amabile era sempre il primo tra i coetanei a dare l’input per la soluzione delle piccole problematiche, proprie della sua età, e la spinta propulsiva alle scorribande giornaliere nei frutteti del circondario.

Oggi è un affermato operatore commerciale.

Chi avrebbe mai pensato che quel demonio di ragazzo, che setacciava le campagne e i boschi a caccia di lucertole, gufi e serpentelli, potesse trasformarsi un giorno in vero uomo?

Quando si avventurava nei boschi in compagnia di Aniello e Rocco (coetanei, ricavati dalla stessa argilla), gli uccellacci e le civette che avevano potuto rifugiarsi nelle braccia di Atena Pallade, smettevano di cantare le loro lugubri litanie per paura di richiamare l’attenzione del “mengelico” gruppo di cacciatori che, sicuramente, avrebbe fatto la felicità di Adolfo Hitler.

Quando, però, qualcuno di detti volatili cadeva nelle mani dello scapestrato tridente, veniva sottoposto, quasi sempre, dopo accurata visita medica, ad intervento chirurgico di appendicectomia.

Ecco la tecnica dell’intervento: Amabile, ovviamente, vestiva i panni del chirurgo; Aniello fungeva da anestetista e Rocco, da aiuto chirurgo addetto alle rifiniture. Al volatile, una volta spennato il basso ventre, veniva fatta assumere, con brutale delicatezza, un estratto di trinciato forte (alcune gocce, che Aniello portava sempre appresso), tabacco con funzioni anestetizzanti, che ricavava dal riciclaggio di mozziconi di sigaro (molto rari all’epoca), già più volte riciclati dal nonno paterno.

Il tabacco era una cosa rara: siamo nell’anno di grazia 1945 e, quel poco che si riusciva ad avere, proveniva dalle coltivazioni padane.

Nel beneventano, zona di attuale produzione a livello nazionale, ancora non avevano dato inizio alla coltivazione intensiva delle foglie del fumo. Si può ben immaginare, quindi, quale valore dessero i tabagisti alle “pestifere” fronde, per non dire del valore, non soltanto in termini venali, che assegnavano alle famose “bionde” americane, che dal mercato nero napoletano venivano introdotte, sporadicamente, in paese da impavidi commessi viaggiatori.

Ma, ritorniamo all’intervento chirurgico.

Dopo aver effettuato l’anestesia tabagica, il pennuto veniva affidato al chirurgo. Dal colore giallo-scuro degli occhi del paziente, Lui, il Primario, riusciva a dedurne lo stato anestesiologico della vittima. E, prima di affondare il bisturi nel ventre del paziente, non mancava mai di sottoporsi a comuni pratiche di sterilizzazione che, solitamente, precedono l’intervento chirurgico. Calzati, quindi, fantasiosi guanti di morbido lattice che, con invidiabile eleganza faceva scivolare sulle scheletriche dita, dava inizio al delicato intervento subito dopo la pronuncia di un breve discorso beneaugurante al malcapitato rapace.

“Il caso è clinicamente difficile. Tuttavia, escludo ogni motivo di preoccupazione da parte tua. Stai tranquillo, sei in buone mani e tornerai presto a seminar il malaugurio”.

Copertosi, poi, naso e bocca col fazzoletto di cotone grezzo, quasi sempre sporco del proprio sangue per ferite provocate da rovi e spine, di cui le siepi che perimetravano i vigneti delle sue razzie abbondavano, Amabile, col cinismo di Cristhian Bardard, incideva in longitudine col temperino arrugginito lo spennacchiato ventre della civetta. Estraeva, quindi, il primo intestino che gli capitava sottomano e, zac!, un bel taglio.

Da notare che, mentre attendeva al delicato compito, non mancava di tuffare i propri occhi in quelli dell’anestetista per cercare in essi il plauso, il consenso che, puntualmente, raccoglieva dal lucore azzurrognolo che soleggiava negli occhi di Aniello.

Affidava, infine, l’esanime paziente nelle mani di Rocco che, con l’ago già incrunato dal filo di “sutura” verdognolo, di cui non si separava mai, che portava attaccato gelosamente dietro il bavero della indistruttibile giacca di fustagno nero, che già fu di altri fratelli, ricuciva rapidamente intestino e ferita e rimetteva in “libertà” la bestiola che, a malapena, riusciva a rimettersi in volo.

Durata dell’operazione? Non più di cinque minuti.

Un primato da Guinness.

In paese, il trio, era temuto non solo dalle civette e dalle lucertole che cromatizzavano le mura e gli steccati degli orti, ma anche e soprattutto dalle ragazze-bene e dalle signore dei notabili, che erano costrette ad assumere atteggiamenti guardinghi e minacciosi per mettere in fuga il famigerato trio che, incuranti dello scorno e dell’erubescente imbarazzo che avrebbero arrecato alle ruspanti “paesanelle”, alzavano loro le gonne per godersi le bellezze nascoste.

Un giorno, però, Amabile e Aniello commisero una ragazzata piuttosto spinosa. Talmente grossa che, per i provvedimenti disciplinari di competenza, fu chiamato in causa addirittura il Sindaco del paese.

Il sole di luglio bersagliava, senza pietà, le casupole bianche appollaiate ai piè del monte Piscacca quando i due organizzarono il misfatto. Non c’era un alito di vento nell’aria e nemmeno una scarda di lira nelle tasche dei due gaglioffi per poter placare l’arsura con una “fetta di neve”, che la vecchia signora Caggiano vendeva all’angolo della piazza del paese.

La neve di luglio? Proprio così.

Poggiata su un lussureggiante tappeto di felci, la neve, affettata dalla sega, si offriva madida di brulicanti bagliori bluastri, alla bramosia dei golosi che facevano a gara per accaparrarsi, con pochi soldi, un pezzo di effimero refrigerio.

Quella neve, però non era nata a luglio: a luglio era soltanto rinata.

E’ mai possibile, vi chiederete? Sì, è possibile.

La vecchia Filomena Caggiano, e famiglia, aveva appreso l’arte di conservare la neve, in tempi tecnologicamente non sospetti, per venderla nei mesi caldi. Lei e le sue ragazze, quando l’inverno stava per finire, si portavano in una località di montagna, che porta ancora oggi il nome di “fosse della neve” dove ammassavano in profonde buche scavate nel terreno enormi quantità di neve appena caduta. Tra la neve e le pareti delle fosse, profonde a volte più di tre-quattro metri, le “Caggiano” creavano una intercapedine che imbottivano scrupolosamente di felci giovani, dal sapore di bosco. E con lo stesso sistema, riuscivano a separare anche orizzontalmente la neve in stradi non troppo grossi in modo che, facilmente, potessero essere estratti nel momento del bisogno nei mesi estivi. Il tutto, veniva rivestito da un robusto strato di felci, fogliame e terriccio, che lo conservava per mesi.

Al trasporto in paese dei blocchi di neve “estiva”, provvedevano, poi, gli asini e le figlie della Caggiano che, poggiandoli sulla testa, li portavano in paese lungo un percorso accidentato di cinque-sei chilometri.

Quel profumo di neve avvolto dal manto naturale di felci, lo si avverte ancora nella calura agostana.

Ma Amabile e Aniello non avevano proprio bisogno di rinfrescarsi con la neve. Loro preferivano tuffarsi nelle acque altrettanto fredde del fiume Calore che a pochi chilometri dal paese, nel comprensorio di Montella, si spianava in una larga falda che donava, ai più audaci, liberi del capestro materno, piacevoli momenti balneari.

E quando i due rientravano in paese, dopo una mezza giornata di bagni, era già sera. Il rientro in famiglia non era mai sufficiente per tener lontani i due monelli. Loro, dopo una sbirciatina superficiale su cosa offrisse di buono per cena la mensa famigliare, erano già pronti a ritrovarsi sulle scalinate di pietra del rione Casale, luogo dove abitualmente si incontravano anche nei periodi invernali, per concertare e pianificare i loro movimenti futuri ed immediati. E fu proprio lì che misero a punto il piano che avevano in mente da un bel po’di tempo.

Quando l’orologio della Torre del Gavitone, macchina del tempo che misura il finito con l’infinito, batté il decimo rintocco e l’ultimo avvinazzato ebbe presa la via di casa per affogare nel sonno i fumi dell’alcool, la diade raggiunse furtivamente la piazza trascinandosi dietro una enorme pianta di fico, ancora carica di frutti maturi. Raggiunta l’aiuola centrale del parco, i due, con passo felpato e lo sguardo guardingo, scavarono con avidità una enorme buca entro cui radicare la stessa. Posata la pianta, ebbero anche l’accortezza di sistemare con consumata perizia, per meglio naturalizzare il “fenomeno”, il terreno di risulta attorno al fusto che ricoprirono con delle zolle erbose ritagliate sotto un abete rachitico che, con riluttanza, spingeva i rami verso un superbo cielo stellato.

Cosa successe la mattina dopo?

I primi a posar le chiappe sulle panchine della piazza furono il vecchio Francescone, che soffriva di asma e mal riposava durante la notte; il messo comunale, don Michele, anche lui anziano e sofferente di cuore, (male che aveva contratto nel Venezuela, dove aveva lavorato in condizioni disumane per lunghi anni) e Pasquale lo spazzino che, ovviamente, era lì per motivi di lavoro e non per mala salute.

Francescone, manco a farlo apposta, sedette sulla panchina che guardava verso il giardino. Non poté, quindi, fare a meno di notare, nonostante l’età avanzata, che tra i pini e le palme del parco figurava anche pomposamente, e inspiegabilmente, una pianta di fico, carica di frutto maturo.

Quel giardino l’aveva progettato e sistemato lui, Francescone, quando anni addietro rivestiva la carica di Assessore comunale ai boschi, e non ricordava di avervi fatto piantumare anche quella pianta sciantosa, che in quel momento era causa delle sue vertigini. E poi?, lui stava sempre lì, tutti i giorni, fin da quando dieci anni prima era stato collocato a riposo per raggiunti limiti d’età, e mai aveva notato, tra gli altri alberi, la pianta novella.

“Che cacchio mi sta succedendo?> si chiedeva, mentre il sudore gli colava copioso lungo il collo e lo faceva apparire come un rospo bagnato.

Si stropicciò gli occhi più volte, senza mai ottenere risultato migliore: i fichi erano sempre lì, grossi e invitanti. Fu preso più volte dalla tentazione di chiamare il messo comunale e lo spazzino, che a testa bassa ramazzava lungo il marciapiedi, per chiedere loro di quella visione magica. Ma non lo fece, per paura, appunto, di essere preso per un visionario.

Al messo e allo spazzino l’apparizione della nuova pianta produsse lo stesso effetto.

“Non è possibile!”, si chiedeva Pasquale, “Quando iersera ho innaffiato le aiuole quella pianta non c’era!”.

E Michele:

“E i fichi? Possibile che, ammesso che la pianta sia nata improvvisamente, sul momento, siano nati già maturi, senza nessun rispetto delle leggi di natura?”.

Entrambi, sicuri di avere le traveggole, fingevano di non aver visto e di non vedere.

Ma il vecchio Francescone non ce la fece più e cominciò a gridare:

“Miché! Pascà! Aiutatm! Accumpagnatm a casa, ‘p favore: nu ‘m sentu buonu”.

I due immediatamente accorsero in aiuto del vecchio, che incominciava a dar già segni d’incoscienza.

“Franciscò, parla, che  t’è succiessu?”.

E Francescone:

“La vista numm’aiuta cchiù: Veru nivuru e      r’foglie m’ sembranu ficu.”.

Soltanto allora, i vecchi volponi, capirono che non si trattava di un miraggio da attribuire all’effetto debilitante dell’afa notturna e, vicendevolmente, si chiesero:

“Tu, Miché, che ‘vviri?”.

“E tu, Pascà? Viri puru tu ‘r ficu?”.

Francescone, dopo pochi giorni morì. Morì nella convinzione che solo un miracolo divino può dar vita, nell’arco di poche ore, ad una pianta adulta con relativi frutti, nonostante i due “volponi” gli avessero più volte assicurato, sul letto di morte, che la pianta era sì vera, ma era stata ripiantata durante la notte da due giovani burloni, che avevano voglia di farsi quattro risate. 

Non ci volle molto impegno mentale per i più astuti compaesani di Amabile e Aniello  capire che erano stati proprio loro a combinare quello scherzo innocente. E, una volta al cospetto del Sindaco, i due mattacchioni promisero di non commettere più monellate, poiché, nella loro innocenza, queste, possono anche essere causa di spiacevoli epiloghi.

                                                                                                       

1 Commento »

  • antoniochieffo scrive:

    Che bello questo racconto!
    Non solo la semplicità di scrittura e di trama ne fanno apprezzare la piacevole lettura, ma la descrizione del paese di qualche decennio fa, quando si usavano le “fosse della neve” e quando si facevano i bagni al fiume, ci fa ritornare, con nostalgia, alla vita più semplice di una volta..
    Dopo i tanti scritti “politici” (uff..) che circolano su PT39 un piccolo stralcio di letteratura.

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