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Gli antichi rituali dei fuochi estivi

09.07.2012, Articolo di Aniello Russo (tratto da “Il Corriere”)

Tutto l’arco dell’anno, dall’inverno alla primavera e dalla primavera all’autunno, è percorso dall’accensione dei fuochi rituali, che generalmente sono dedicati al Santo Patrono locale. Pur avendo l’aspetto di un unico rito pagano, cioè quello di scongiurare l’allungarsi delle ore di buio, tuttavia i fuochi assumono nella nostra terra, a seconda dei paesi, aspetti diversi e modalità differenti.

L’antropologia non è una scienza esatta, basata com’è su testimonianze incerte e talora contrastanti; ma si può raggiungere un discreto livello di verità con l’analisi comparata. Comunque la mia è solo una interpretazione, discutibile o attendibile quanto si voglia, ma supportata da dati ed elementi documentati. Senza avere la presunzione di offrire certezze, nutro tuttavia la speranza di fornire qualche spunto di riflessione. I riti del Maio, come pure i rituali dei falò invernali o estivi, a parer mio, non avevano solo finalità propiziatoria (cioè, finalizzati a propiziare l’allungamento delle ore del giorno) e apotropaica (cioè, finalizzati a esorcizzare il male). Soprattutto i riti che cadono nella giornata di Santo Stefano, palesano soprattutto una funzione divinatoria (hanno cioè la virtù di profetizzare il futuro), che dipende direttamente dal carattere sacrificale del rito, aspetto che con il trascorrere del tempo è andato sbiadendo. Un tempo il rito dei falò era manifestamente sacrificale; e come la maggior parte delle cerimonie religiose, ha conosciuto tre fasi di evoluzione, non necessariamente qui in Irpinia, e non in tempi recenti:

1. la fase del sacrificio umano, adombrata nel rito irpino di Segalavecchia, che si celebrava a metà quaresima; ammetto che questa è una congettura non accertata;

2. più verificabile la fase del sacrificio animale, che è raffigurato nei riti dell’asino o della mucca di fuoco; ma anche nella festa di Sant’Antonio Abate (sant’Antuono, 17 gennaio), al quale si sacrificava un maiale;

3. infine, la fase del sacrificio arboreo, che è rappresentato dall’offerta del Maio; questa è la fase più evoluta del rito antico. La Natura è simbolicamente identificata nella pianta del Maio. Comunque sia il rito dei fuochi rappresenta una cerimonia religiosa a carattere funebre.

Il rito del Maio

Il rito del Maio è celebrato in tutt’e sei i paesi del Baianese, ma io voglio soffermarmi sui riti di Baiano e di Sirignano. Baiano – dice Galante Colucci – detiene l’arcaicità del rito del Maio, che si celebra il 26 dicembre, in onore di Santo Stefano. Un tempo le Calende, che sono i dodici giorni dal 26 dicembre al sei gennaio, erano ritenute indicative delle previsioni del tempo meteorologico e del raccolto dell’anno successivo. Insomma, attraverso questi 12 giorni, che vanno da Santo Stefano all’Epifania, è possibile trovare i pronostici sull’andamento dell’anno: se il 26 dicembre è una giornata serena e tiepida, altrettanto saranno i giorni dell’intero mese di gennaio; se il 27 dicembre piove, il mese di febbraio sarà piovoso, e così via. Tutto il periodo è un tempus sacrum, in cui forte è la presenza di forze soprannaturali e di entità di oltretomba per interrogare il futuro. Il momento del solstizio invernale, secondo gli antichi era appunto il 25 dicembre, giorno della nascita del Sole Invitto. Questa festa si diffuse nei primi secoli dell’era cristiana in tutto l’impero romano: i fuochi rituali accesi nella notte tra il 24 e il 25 di dicembre sono un residuo del culto della divinità; e nel mondo cristiano, la data del 25 dicembre sarà assunta come il Natale di Cristo. Natale era indicato anche come la giornata più idonea a trasmettere l’arte della magia, in genere da nonna a nipote oppure da madrina a comarella. Un residuo della divinazione pagana dovrebbero, dunque, essere queste Calende popolari, rimaste nell’immaginario collettivo irpino: al sole, prima della sua massima riduzione di luce, venivano attribuite virtù divinatorie, una sorta di testamento meteorologico. Un potere soprannaturale di presagio, legato al magico momento della morte e della rinascita. Sirignano ha attribuito al giorno festivo dedicato a Sant’Andrea, il 30 novembre, la stessa virtù divinatoria del giorno festivo dedicato a Santo Stefano. Nel rito celebrato in questo paese mi ha colpito l’accenno che fa Pasquale Colucci a un gioco di giovani: la costruzione di una piramide umana che tentava di eseguire un giro completo attorno al falò. Non si hanno elementi per meglio definire questo gesto apparentemente ludico; potrebbe essere la piramide dei giovani il tentativo di una raffigurazione umana della pianta offerta in sacrificio, e lo conferma la circumambulazione attorno al fuoco; interessante sarebbe sapere se il tracciato circolare era eseguito in senso orario. Comunque il rito tenderebbe a tracciare attorno al fuoco una barriera protettiva.

I falò rituali

Al rito del Maio sono assimilabili i falò rituali, che costituiscono una delle poche testimonianze rimaste di antichi riti pagani. Un tempo la teoria dei falò partiva dalla notte di Natale per terminare il 19 marzo: da un solstizio a un equinozio, insomma. I fuochi erano accesi in onore di Sant’Antuono (17 gennaio, a Nusco), San Ciro (31 gennaio, ad Avellino), di S. Giuseppe (19 marzo, a Bagnoli), tanto per citarne qualcuno. Tra i fuochi pubblici, il falò di San Giuseppe, è riconducibile a una festa pagana del cambiamento delle stagioni. Si pensi che prima della riforma del calendario romano, i mesi erano dieci, e l’anno cominciava con il mese di marzo; e ce lo ricordano i mesi di settembre ottobre novembre e dicembre, che non sono il settimo l’ottavo il nono e il decimo mese dell’anno, bensì il nono il decimo l’undicesimo e il dodicesimo. A questi fuochi all’aperto la religiosità popolare assegnava virtù purificatrice e rigeneratrice. Nello stesso periodo, presso i romani antichi, si accendevano i fuochi per festeggiare l’equinozio di primavera, allo scopo di bruciare quanto di cattivo apparteneva al vecchio anno. Comunque tutti i falò hanno conservato i tratti delle cerimonie rituali arcaiche, che erano celebrate sia per propiziare il ritorno del sole, in base al principio simpatico; sia per purificare i campi dalla presenza di potenze negative. Rivela carattere eccezionale il rito del ceppo di Natale, un’antica usanza che nel primo medioevo viene interpretata in senso cristiano. Il Ceppo, acceso il 26 dicembre, doveva durare fino all’Epifania, cioè per 12 giorni, quanti sono i mesi dell’anno, il tempo che impiega la terra per compiere il suo giro attorno al sole. Acceso nel focolare il fuoco offre agli uomini gli stessi doni del sole, la luce e il calore. E’ da sottolineare la somiglianza tra tutte le cerimonie legate al rito dei fuochi, ovunque esse si celebrassero in Irpinia, e in qualunque data esse cadessero. Appena il sole calava dietro la montagna, dunque si accendevano i fuochi nei piazzali e davanti alle masserie di campagna, e il suo calore riaccendeva nei cuori il desiderio di stare insieme. All’alba, quando il fuoco del falò andava spegnendosi, la brace, i tizzoni, e la cenere non venivano gettati via, perché si credeva che avessero potere propiziatorio e apotropaico: la cenere si spargeva sul tetto perché tenesse lontano i tuoni e i lampi, le malattie e gli incantesimi; i tizzoni, divisi fra le famiglie povere, servivano per alimentare il fuoco nel camino; la brace, una paletta ciascuno, era divisa tra quanti avevano un familiare a letto ammalato. Il Santo, a cui era dedicato il falò, nel corso dei secoli ha finito con l’ereditare le funzioni di varie divinità pagane preposte alla fecondità della terra.

Segalavecchia

Tra febbraio e marzo, a metà quaresima, (ne ho raccolto testimonianza a Guardia, a Lioni, a Nusco) cadeva il rito di Segalavecchia (tagliata a metà a significare che era trascorso metà del periodo quaresimale); il rituale terminava con il falò del fantoccio di legno. La funzione del falò potrebbe essere la stessa degli altri fuochi, cioè quella di aiutare il sole, che d’inverno è debole. La Vecchia (che sarebbe la quaresima) rappresenterebbe la sterilità e, bruciandola, si compie un rito di fertilizzazione. Il rituale di Segalavecchia testimonia le usanze sacrali che risalgono alle religioni dei popoli italici indigeni. Il rito assolveva la sua funzione propiziatoria attraverso una cerimonia funebre: la Vecchia, cioè la quaresima, viene sacrificata per consentire alla Natura di rigenerarsi.

Il rito degli animali di fuoco

Un rito che richiama il Maio, e naturalmente anche i falò rituali, è quello che prevede l’offerta sacrificale di un animale: L’asino di fuoco di Rotondi e La vacca di fuoco di Bagnoli Irpino. La prima cerimonia si svolge il 26 dicembre. I cittadini costruiscono un asino di legno, imbottito di petardi. Posto su un carretto con quattro ruote viene fatto sfilare per le strade del paese. Al temine si accendono i fuochi di artificio. La data coincide con quella del Maio di Baiano. La vacca di fuoco di Bagnoli Irpino è una sagra che cade il 17 agosto, festa di San Rocco. Una mucca di legno e cartapesta viene rivestita di fuochi d’artificio. A notte inoltrata si accendono i petardi e la vacca viene portata in tondo attorno alla Piazza, tirata dal fuochista per mezzo di una fune di due metri. Il circuito viene effettuato in senso antiorario e lo scoppio dei fuochi avviene con la vacca in movimento. La prima pioggia annunzia il declinare dell’estate verso la stagione fredda: Acqua r’aùstu, viernu a Nuscu (Una pioggia in agosto annuncia che ormai l’inverno è vicino, recita un proverbio di Bagnoli). Il rito assume tutt’altro significato da quello dei fuochi invernali. In questo caso si potrebbe ipotizzare un rituale teso a fermare il tempo che corre verso l’inverno con l’accorciarsi della luce del giorno; lo confermerebbe la corsa della vacca che gira attorno alla Piazza, come la lancetta che segna i minuti attorno al quadrante; ma in direzione opposta.

                                                                                                       

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