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Dicembre, mese del Natale

10.12.2012, Articolo di Aniello Russo (da “Il Corriere”)

Il mese di dicembre era anche detto popolarmente lu mesu r’ Natalu, per la festività celebrata il giorno 25. Un evento che, tra i preparativi, la novena e l’ansia dell’attesa, finiva per riempire quasi per intero il mese.

Il conto alla rovescia cominciava già all’inizio del mese (2 dicembre): A santa Bibbiana, pe’ Natale mànchene quìnnici juorni e na semmàna. Per riprendere una diecina di giorni dopo: Ra Santa Lucia a Natalu ddùrici juorni ngi havu (Ancora dodici giorni per Natale). Il conteggio ripigliava il 17, quando l’attesa diventava spasmodica, ma ci confortava la speranza:

A Santu Làzzuru p’ Natale
otto juorni mànchene;
e si re cuntàmu cu la spranza,
sulu na summàna manca.

Dicembre, mese speculare
Dicembre è un mese che, concludendo la seconda metà dell’anno, è speculare del mese di giugno, il quale a sua volta segna il termine della prima metà dell’anno. Specularità confermata dalle due feste di San Giovanni: la prima è la festività di San Giovanni Battista (San Giuvanni ca chiangi), che ricorre il 24 di giugno nel solstizio estivo; la seconda è la festività di San Giovanni evangelista (San Giuvanni ca rire), che ricorre il 27 dicembre nel solstizio invernale. Il primo è San Giovanni che piange sia perché ha subito la decapitazione sia perché con la sua giornata le ore di luce cominciano a scemare; il secondo, invece, è San Giovanni che ride, sia perché ha vissuto una vita accanto a Cristo sia perché la sua festività dà inizio all’allungamento delle ore di luce. Recita infatti un detto popolare irpino: A nu San Giuvannu la iurnàta s’abbìa accurcià, a n’atu San Giuvannu s’abbìa a allungà.
La specularità dei due mesi, giugno e dicembre, si manifesta anche nella forma della magia: se nella notte di San Giovanni Battista (24 giugno) si scatenano tutte le forze del male, e per alcuni aspetti è anche un tempo carico di orrore, un tempus horrendum insomma; la ricorrenza della festività di San Giovanni Evangelista (27 dicembre), invece, non solo genera il prorompere delle forze del bene, ma si palesa anche come un tempus sacrum, un tempo cioè pieno di premonizioni.

Le previsioni del tempo
Dicembre, come giugno, è un mese era segnato da numerosi momenti magici e carico di potere divinatorio. La divinazione interessa soprattutto le previsioni del tempo non solo a breve scadenza, ma pure a lungo termine (le calende).
Il primo giorno carico di virtù divinatorie è il due del mese: Si chiove a Santa Bibiana, chiove p’ nu mese e na semana. Se in questa giornata cade la pioggia, le precipitazioni continueranno per quaranta giorni ininterrottamente: insomma questa è una giornata speculare del quattro aprile, e rimanda ai quaranta giorni del biblico diluvio universale; due nodi caratterizzati da forti mutamenti meteorologici. Il nodo di Santa Bibiana farebbe allungare la durata delle precipitazioni, che terminerebbero solo il nove gennaio, giornata dedicata al Battesimo di Gesù, che così viene a caricarsi di un grande significato sacrale.
Il quattro di dicembre, festa di Santa Barbara, è meteorologicamente tempestoso. Ecco un frammento di preghiera popolare: Santa Vàrvara, affàcciti affàcciti / ca mo’ pàssene rui castiéddi /, unu r’acqua, n’atu r’ vientu /: Santa Vàrvara fa’ turnà buontiémpu. (Affacciati S. Barbara, perché stanno passando due castelli: uno è d’acqua, l’altro di vento: S. Barbara, fa’ che torni il bel tempo).
Secondo la cultura popolare, la giornata del 13 dicembre segnava l’inizio del prolungarsi della luce del giorno: A Santa Lucia quant’a nu passi r’ addìna (A S. Lucia il giorno si allunga quanto il passo di una gallina). Il calcolo del contadino sulla durata della luce diurna non teneva conto della riforma del calendario voluta da papa Gregorio XIII (1582), che aveva spostato il solstizio al 22 dicembre.
Per questo motivo prendeva inizio dalla festività di S. Lucia l’accensione dei falò: il rituale aveva la funzione di aiutare il sole nel suo lento cammino dopo il solstizio invernale, che cadeva quel giorno.
Infine, l’osservazione del tempo meteorologico dei dodici giorni e delle dodici notti che precedono il Natale, a partire dal 13 dicembre, offriva al contadino la possibilità di pronosticare il tempo per tutto l’anno venturo; per esempio, se durante le ventiquattro ore del tredici dicembre dovesse fioccare, la caduta della neve si ripeterebbe nel mese di gennaio; se il quattordici dicembre dovesse uscire il sole, farà tempo buono in tutto il mese di febbraio, e così via.

L’accensione dei falò
Dunque, dalla vigilia della festività di S. Lucia che, secondo l’immaginario popolare, coincideva con il solstizio invernale, si dipana la serie dei fuochi rituali, accesi in Irpinia: la sera del 12, la sera del 24, la sera del 25, la sera del 31, tanto per citare qualche data. In queste serate si accendevano, e taluni si accendono ancora, i fuochi nelle strade di vari paesi, come li faùni a Villanova o la carcàra a Bagnoli. Gli studiosi ritengono che i fuochi della tradizione cristiana, accesi nel periodo del solstizio invernale, ripetano il rito pagano in onore del dio Sole.
L’accensione del fuoco alla vigilia di Natale veniva realizzato sia all’esterno con i falò pubblici sia all’interno di ogni casa, mettendo nel camino un grosso ceppo che doveva restare sempre acceso fino alla mattina dell’Epifania, quando la cenere e i carboni che restavano si gettavano sul tetto di casa per esorcizzare ogni forma di tempesta e ogni specie di male.
In alcuni paese dell’Irpinia, si aspettava la nascita di Gesù accendendo i fuochi nelle strade, perché la Madonna, passando potesse fermarsi e riscaldarsi. Frotte chiassose di ragazzi bussavano di uscio in uscio e intonavano un canto di questua: “Nu sarciniéddu p’ Cristu Salvatore, p’ l’assucà re fassatore (Un fascio di legna per Gesù Bambino per asciugargli i pannolini). Con la legna raccolta accendevano il falò all’aperto, e passavano la notte seduti in cerchio attorno al calore della fiamma.
La potenza del fuoco rituale veniva raddoppiata nella notte di Natale perché, secondo l’immaginario collettivo, il tempo si ferma in attesa della nascita di Cristo, e quindi il sole necessita di una maggiore spinta per proseguire nel suo cammino verso l’equinozio di primavera.
Presso alcune comunità dalla cenere e dalle fiamme dei roghi si ricavano dei segni premonitori. Il mese di dicembre come era propizio alla divinazione, così era propizio alla celebrazione di riti magici.

I riti di Natale
La notte tra il ventiquattro e il venticinque di dicembre già presso gli antichi pagani era ritenuto un tempus sacrum, un tempo carico di misteri e di presagi. Si credeva altresì che la notte di Natale fosse un tempus inviolabile, per cui il momento della nascita di Cristo, figlio del Creatore quindi immortale, non poteva essere profanato dall’amplesso carnale dell’uomo, che è mortale. Forse anche perché la Madonna mettendo al mondo Gesù simboleggia tutte le donne nell’atto del travaglio.
I rapporti sessuali erano proibiti anche per evitare il rischio di concepire dei figli che, per una sorta di maledizione celeste, sarebbero diventati o lupi mannari o janàre. Vari riti pagani in Irpinia erano sopravvissuti nei lunghi secoli succeduti all’avvento del cristianesimo, e furono praticati fino alla metà del secolo scorso. Mi limito a ricordarne solo tre: la camicia nuova, l’uovo di Natale e l’arancia di Natale.
La camicia nuova è una forma di ritualità magica: indossata all’alba di Natale e portata addosso per tutta la giornata premuniva da ogni malattia per l’intero anno fino al Natale successivo. Come la camicia dell’uomo fortunato, essa appartiene a una leggenda di tradizione medievale.
L’uovo di gallina scodellato la notte di Natale recava con sé anche la virtù di guarire ogni male contratto nell’anno che andava a concludersi: L’uovu cacàtu lu juornu r’ Natalu sana tutti li mali. Un rito propiziatorio, celebrato con una pratica di natura imitativa, a conferma che un tempo l’alimentazione aveva carattere sacrale, si riteneva che l’uovo possedesse il germe della vita e virtù generatrici. Nell’immaginario popolare esso è simbolo di Dio: “Uno e al tempo stesso trino, vale a dire entità monocellulare costituita tuttavia di guscio, albume e tuorlo” (Cardini, p. 152).
Terminata la messa di mezzanotte, i ragazzi attendevano le coetanee sul sagrato. Appena esse uscivano, il giovanotto in cerca di una compagna cavava dalla tasca un’arancia e la lanciava addosso alla fanciulla che aveva già adocchiato. Era una forma di schermaglia d’amore (fonte di Guardia dei L.: C. De Simone). La stessa fonte riferisce che generazioni addietro questo rito si praticava all’interno della chiesa. Il rito è di origine pagana: per designare la ragazza oggetto dei suoi desideri, il maschio le lanciava una mela, frutto consacrato ad Afrodite (Vedi: Antologia Palatina, v. 80). Dopo la cupezza di novembre, mese dei morti, e dopo la radiosità di dicembre, mese della Nascita di Gesù, si profila all’orizzonte il tempo del freddo e della fame: Roppu Natalu, friddu e fama.
A testimonianza della precarietà della gioia di vivere, di cui il contadino era consapevole, ecco far ritorno con l’anno nuovo il tempo dei sacrifici. Incombeva il duro periodo di astinenze e di rinunzie all’interno del quale si inseriva la Quaresima.

                                                                                                       

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