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Dai defunti all’attesa del Natale

15.11.2012., Articolo di Aniello Russo (da “Il Corriere” del 11.11.2012)

Il penultimo mese dell’anno non solo segnava l’alternarsi delle due stagioni in campagna, ma costituiva pure il passaggio nodale dalla morte alla vita. L’avvertimento degli anziani: attenti ai mesi con la lettera erre.

I vecchi consigliavano di stare attenti ai mesi nefasti, quelli che contengono la lettera r, lettera che esprimeva la potenza di forze occulte (così Pitagora), quindi anche demoniache. Soprattutto bisognava guardarsi da marzo e da novembre, due mesi in cui pure un dito di sole era ritenuto pericoloso per la salute. Novembre, nono mese dell’antico calendario romano, è composto da trenta giorni, racchiusi tra la Commemorazione dei Defunti (2 novembre) e l’aspettazione del Natale, annunziata da Sant’ Andrea (30 novembre).

Al principio del mese le anime dei defunti si mostrano inquiete. Nella notte tra l’uno e il due la loro inquietudine raggiunge il punto culminante, fino a che si spalancano le porte dell’Oltretomba e i defunti si riversano sulla terra. E’ la nox horrenda, in cui si infrange la barriera tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti. In tale occasione, per i vivi è possibile vedere le anime benedette. Basta riempire una catinella d’acqua, esporla sul davanzale della finestra, accendere ai lati due candele formate col cerume raccolto in tutto l’anno da ogni componente della famiglia, e attendere la mezzanotte. Al primo tocco della campana, nel fondo della catinella, al fioco lume dei due ceri, i morti sfilano in processione uno dietro l’altro, vestiti di bianco e preceduti da un sacerdote anch’esso defunto, condannato a dire tutte le messe che da vivo ha trascurato di officiare. E tra le ombre, se abbiamo eseguito il rituale con cura, possiamo facilmente riconoscere il volto dei familiari che passano silenziosi sotto i nostri occhi. Ma la visione dura poco: all’ultimo tocco della mezzanotte le ombre dei defunti svaniscono.

La Messa dei Defunti

La processione è diretta alla chiesa per celebrare la messa di mezzanotte, in riparazione delle messe non ascoltate da queste anime quando ancora erano in vita. Le testimonianze raccolte in ogni paese d’Irpinia (da Avellino a Zungoli, dalle voci di testimoni appartenenti a ogni zona della nostra provincia) concordano nel tramandare la leggenda della Messa dei Defunti. A sentire la messa sono tutte anime del purgatorio. A mezzanotte in punto, di colpo si illumina la chiesa e si spalanca da solo il portone d’ingresso. Ordinati e in fila, i defunti varcano la soglia e vanno a sedere nei banchi della navata centrale, i maschi a sinistra e le femmine a destra. Se per ventura durante la funzione religiosa entra in chiesa una persona ancora in vita, corre il rischio di restare per sempre con i trapassati: appena finita la messa, alle parole di commiato dell’officiante, il portone si richiude da solo, e chi si trova dentro vi rimane per sempre per raggiungere con gli altri il luogo di penitenza. La storia è un topos della letteratura popolare irpina. Alcune fonti aggiungono altri particolari. Dopo la messa, prima di rientrare in purgatorio, le anime dei defunti fanno visita alle loro case per un ultimo saluto. Per questo i parenti, al momento di andare a letto, lasciano la brace sotto la cenere e una manciata di castagne sulla tavola. Innanzitutto evitano di spazzare il pavimento e di gettare fuori l’immondizia, nel timore di colpire con la scopa le ombre dei loro cari defunti che, invisibili, varcano la soglia di casa. I morti si riscaldano al calore della brace e dopo essersi rifocillati, penetrano nella camera dei loro cari per imprimere un bacio, che lascia un livido sul collo. Questo livido, detto lu vasu r’ la bonanima, era il segno del contatto avuto con l’anima del defunto. I morti, quindi, si raccolgono di nuovo in processione per prendere la strada del ritorno. Chi vuole vederli nel momento del rientro nell’Aldilà, deve osservare il digiuno nei tre giorni precedenti (30, 31 ottobre e 1 novembre) e porsi sull’uscio di casa in compagnia di una gatta nera, accanto a un secchio d’acqua: i defunti fanno così una breve sosta per dissetarsi. Altre fonti sostengono che le anime, provviste di anfore, si recano alla fontana del paese per attingere l’acqua con cui spegnere l’arsura che le tormenta nelle fiamme del purgatorio.

La questua per i Morti

In suffragio delle anime dei morti, in questa giornata agivano anche i bambini e i fanciulli, anime innocenti. Infatti, il due di novembre in ogni casa si mettevano a bollire le fave, le castagne secche e i ceci per consumarli a pranzo e a cena, e per distribuirli ai poveri. I ragazzi passando per le vie e i vicoli del paese, bussavano di porta in porta e chiedevano un pugno di fave o di ceci intonando in coro un canto improvvisato. All’interno del canto, ripetevano il ritornello: Cicci crurip’ nui criaturi;cicci cuottia pp’ li Muorti.(Legumi crudi per noi creature, legumi cotti per le anime dei morti). Nessuno rifiutava di offrire un pugno di ceci in suffragio dei morti. Recitava un proverbio irpino: “Se per i Morti non hai ancora seminato, quando arriva San Leonardo (6 novembre) è oramai troppo tardi.” Perché la semina veniva assimilata ai Morti? Anzitutto perché i legumi portavano il segno nero della tenebra dell’Oltretomba. I Romani partecipando ai funerali gettavano alle spalle manciate di fave per esorcizzare la morte; Ovidio ricorda un rito funebre praticato a mezzanotte tra l’otto e il nove di maggio: Vertitur et nigras accipit ante fabas, aversusque iacit: sed dum iacit, «Haec ego mitto, his » inquit « redimo meque meosque fabis ». (Si volta e prende prima nere fave, e di spalle le getta, ma gettandole, dice: “Le getto e purifico me e i miei con queste fave”. Fasti, libro V, verso 435, segg.).E poi anche perché il seme viene interrato per poi rispuntare fuori dalla terra in primavera, come viene interrato un defunto nella speranza di un suo ritorno in un futuro vicino o lontano.

Mese cruciale per i campi

Con l’arrivo di novembre, la neve faceva la sua comparsa anche nei campi e negli orti, dove restava, perché non c’era il calpestio umano come nelle strade dei centri abitati: A li Santi, la neve a pp’ li campi; a li Muorti, la neve p’ gghint’a l’uorti. La neve, insomma, continua la sua avanzata che culminerà nei mesi invernali, quando coprirà ogni cosa e sarà molto più consistente e duratura. V’è poi, nel mese di novembre un giorno, e precisamente il 25, giusto un mese prima di Natale, che coincide con la festività di Santa Caterina, giorno che è precursore del tempo che farà a Natale: Cummu catarinéa, accussì nataléa. Meteorologicamente la giornata della Santa anticipa quella di Natale. Provate a farci caso quest’anno. In genere, però, fa capolino la neve: A Santa Catarina, la nevu ngimm’a re spine (Nel giorno di Santa Caterina, la neve si posa sulle siepi). Dopo un mese intero durante il quale si sono pianti i morti, rinunziando a qualsiasi gesto di allegria e a ogni intemperanza alimentare, il contadino apriva il cuore al pensiero delle prossime festività natalizie. Sant’Andrea (30 novembre) è il portatore di un calendario orale del mese successivo: Sant’Andrea porta la novaca li sei è San Nicola, l’otto è dde Maria,li trìrici è dde Lucia, li vintunu San Tummaso cantaca li vinticingu è la Nascita Santa. Insomma S. Andrea, che chiude il mese dei Morti, non solo è il passaggio nodale dalla staggione a la vernàta (come recita un proverbio irpino: Sant’Andéa o jocca o venteléa) ma annunzia pure la prossima festività del Natale. Un mese, novembre, appunto sospeso così tra la morte e la vita della vicenda umana, come tra lo sfiorire della campagna e l’attesa del rifiorire della natura dopo il lungo inverno.

La trasgressione della janàra

Ma c’è un essere, che è un parto dell’immaginario collettivo popolare, il quale volutamente trasgredisce la legge naturale dell’avvicendarsi della morte e della vita. Questa creatura fantastica è la janàra. Essa viene a rappresentare l’inutile sforzo di chi presume di conquistare una immortalità altra, tentando di salire al cielo in volo sulla scia di Gesù. Ma il suo tentativo si schianta al suolo. Per sessanta notti incombeva una minaccia sui bambini: a partire dalla notte tra il 24 e il 25 di novembre e per tutte le notti fino al venticinque di gennaio in Irpinia le janàre penetravano nelle case dove c’era un neonato per attentare alla sua vita o per storcerne le braccia o le gambe. Tutto questo in attesa di ascendere anch’esse al cielo, nella stessa notte della resurrezione di Cristo. Giacché nascono la notte di Natale, come Gesù, le ianàre conducono la loro esistenza nel tentativo velleitario di calcare le orme del figlio di Dio, col miraggio di diventare eterne in anima e corpo, anche se in negativo; la loro aspirazione è tutta volta a mutarsi in spiriti del male. E intanto perseguono l’intento omicida di sopprimere ogni creatura nata in queste settimane nella segreta speranza di sopprimere il Bambino Gesù, che è il loro rivale.

                                                                                                       

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