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Dal Laceno alle cupole rosse di Palermo

05.03.2015, Articolo di Gerardo Troncone (da “Il Quotidiano del Sud” del 01.03.2015)

Sulla collina i resti dell’antico albergo del lago.

Un quadro di Michele Lenzi, che fa bella mostra di se a Palazzo Caracciolo, rappresenta la scena ottocentesca della costruzione di un piccolo edificio sulla sommità di una collina, sullo sfondo del lago e delle verdi alture che circondano il pianoro, con l’inconfondibile Monte Cervialto avvolto dalle nuvole all’orizzonte.

Alla costruzione vera e propria sono addetti gli uomini, mentre alle donne, nel costume dell’epoca, è riservata la ricerca e il trasporto dei materiali, pietre e assi di legno. Le donne, in primo piano nel quadro, salgono in fila lungo il sentiero che conduce alla sommità. In basso, riuniti in due piccoli gruppi disposti verso i lati opposti del quadro, si vedono degli uomini ben vestiti, che non partecipano direttamente all’esecuzione dei lavori.

Il critico d’arte Riccardo Sica nell’angolo in basso a sinistra del quadro ha riconosciuto l’autore che vi si è autoritratto, e via via altri artisti e uomini di cultura dell’epoca suoi amici: Erminio Trillo intento a scolpire, Achille Martelli che dipinge, il grande letterato montellese Giulio Capone, lo scultore Bottazzi.

Michele Lenzi pittore, distaccatosi ben presto dall’accademismo dell’epoca, ha partecipato alla rivoluzione dell’arte e della cultura, avvicinandosi rapidamente ad un personalissimo realismo, in cui ha cercato la poesia nella semplicità delle persone e dei gesti, nella bellezza dei luoghi, nella suggestione dei costumi e delle tradizioni.

Gran parte delle sue opere sono state ispirate a persone della sua amata Bagnoli. Basti qui ricordare uno dei suoi capolavori, “I primi passi”, dove, in un contrastato gioco di ombre e luci, un bimbo incosciente e felice si lascia andare a camminare sotto gli occhi ansiosi dei nonni, dei fratellini, del padre, mentre una madre preoccupata lo segue con le braccia aperte, pronte a sostenerlo e soccorrerlo.

Michele Lenzi nel 1860 seguì Garibaldi in Sicilia, tornando a casa da eroe, e lasciando due testimonianze del prima e del dopo: il bozzetto della partenza del garibaldino, in cui una camicia rossa scanzonata e fiera si staglia fra le semplici figure dei compaesani, e la struggente immagine del “Ritorno del garibaldino”, in cui un maturo e pensoso ufficiale, reduci dai campi di battaglia, con l’innamorata stretta al fianco, ritrova il vecchio padre cieco, seduto sull’uscio di casa, che sorride nel solo toccarlo.

Michele Lenzi dal 1878 fu sindaco indimenticato di Bagnoli Irpino, fino al giorno della morte, avvenuta otto anni dopo. Al grande amministratore si debbono le vie che ancor oggi collegano il paese ad Acerno e agli altopiani, supporto di uno sviluppo turistico ed economico sconosciuto nella gran parte delle realtà meridionali. A lui si deve soprattutto la linea ferroviaria Avellino-Rocchetta.

Il luogo ritratto nel quadro è reale, com’è di regola nelle opere di Michele Lenzi: il lago sullo sfondo, la verdeggiante pianura ove pascolano liberamente rade mandrie di vacche, il profilo gibboso del Cervialto sulla sinistra, le colline scure dei faggi del Rajamagra, sulla destra, offrono la chiave per localizzare la piccola collina in primo piano.

Oggi la collinetta è interamente ricoperta di faggi, ed è sormontata da un “moderno” edificio di tre piani, ormai cadente: sono i resti di quello che era l’Albergo al Lago, dove non moltissimi anni fa si ritrovavano i protagonisti di una delle più belle e struggenti pagine della cultura irpina, il Laceno d’Oro, voluto in questi luoghi a raccogliere l’eredità spirituale e artistica di Michele Lenzi.

L’analisi del quadro e una visita sul posto svelano un segreto.

Un antico manoscritto narra di Guglielmo, un santo eremita che, nella prima metà del XII secolo, dopo aver vagato a lungo per i monti dell’Appennino, si era fermato a dimorare in una grotta ai piedi di un monte, allora detto Laceno, circondato “dalle sue falde fino alle più alte vette da una selva densissima”, interrotta da una radura “spoglia di alberi di circa dodici stadi” in mezzo alla quale scorreva “un fiume che perfora la montagna e scorre con impeto fino ai piedi”.

Guglielmo trascorreva tutto il suo tempo al Laceno in preghiera, cibandosi di erbe e radici, con l’unica compagnia di un altro eremita di nome Giovanni.

Mentre un giorno vagava fra luoghi spinosi e innevati, avendo sempre la mente rivolta a Cristo, questi gli apparve improvvisamente, nell’aspetto della Passione, e lo invitò ad allontanarsi immediatamente da quel luogo, per portare altrove il messaggio divino.

Non restare: NE STES.

Da quelle parole, mal intese e tramandate dal popolo di Bagnoli, sarebbe nato, stando al leggendario racconto, il culto di un’altrimenti sconosciuta Santa Nesta, in onore della quale sarebbe stata eletta una cappella, proprio sulla cima della collina sovrastante la grotta dove aveva dimorato Guglielmo.

La corrispondenza dei luoghi descritti nel leggendario racconto con i luoghi raffigurati nel quadro di Michele Lenzi è perfetta: il lago del racconto è lo stesso Lago Laceno, il cui emissario proprio nel punto raffigurato precipita in un inghiottitoio e sbuca alcuni chilometri a valle nel Vallone Caliendo, dopo aver attraversato una spettacolare grotta carsica; la chiesetta di santa nesta è quella che si intravede all’interno della nuova fabbrica, che sorgeva dove oggi sono ben visibili i resti scheletrici del celebre “Albergo al Lago”, decaduto negli anni sessanta-settanta.

Seguendo queste labili tracce, al di sotto della collinetta, proprio alla base della parete che s’affaccia sul lago, scopriamo fra gli arbusti una fessura bassa e larga, seminascosta dai rovi, che immette in una grande caverna, al centro della quale un piccolo altare, tenuto in ordine da ignote mani devote, è dedicato appunto a san Guglielmo.

In questo luogo mistico, consacrato al santo patrono d’Irpinia, si salda una tradizione di fede con un’immagine di luoghi perduti.

L’uomo che vagava fra i rovi e la neve, si cibava di erbe, dormiva in una grotta era colui che solo pochi anni prima aveva dato origine a quella che sarebbe diventata la più importante congregazione monastica all’interno del più potente Stato del Mediterraneo: l’abbazia di Montevergine, che con i Normanni aveva iniziato un lungo comune percorso nella Storia del Sud d’ Italia.

La storia di Guglielmo è tramandata in un antichissimo scritto, la “Legenda de vita et obitu sancti Gulielmi confessoris et heremite”, pervenuto ai giorni nostri in due distinte copie, riunite in un unico codice, derivate entrambe da un archetipo perduto.

Il racconto della vita e dei miracoli del santo, nelle due pur differenti edizioni (la prima, in caratteri beneventani, risalente alla prima metà del XIII secolo, la seconda, in caratteri gotici, risalente all’inizio del XIV), è perfettamente coincidente, l’opera è stata redatta in tempi diversi e da autori diversi (secondo lo studioso verginiano padre Giovanni Mongelli si riconoscono ben quattro diversi autori, che hanno sviluppato, l’opera originale a partire dalla metà del XII secolo fino alla seconda metà del XIII secolo), con stili che risentono del differente contesto storico-sociale.

Vi si legge che Guglielmo nato nel 1085 a Vercelli, all’età di quindici anni lascia la casa con indosso un solo mantello e si incammina verso Santiago, in Spagna, cibandosi di pane e acqua e cingendosi di cilicio.

Tornato dal primo pellegrinaggio, si avvia sulla strada di Melfi, dove compie un primo miracolo, e poi a Matera, dove Giovanni, uomo santo fondatore del monastero di Ginosa, lo invita a restare per l’utilità dei fedeli.

Guglielmo, alla ricerca di luoghi solitari, percorre la Daunia, quindi arriva in Irpinia, dove scopre il monte di Virgilio, prossimo ad Avellino, ove si dirige verso l’anno 1118 (secondo l’ipotesi di Placido Tropeano). Ben presto sul monte sotto la guida del santo nasce una comunità monastica consacrata alla Madre di Dio: gli eremiti di Montevergine.

Qui trascorse otto straordinari anni: i primi anni con pochi compagni, in piccole celle appena sufficienti a superare gli inverni gelidi, poi l’afflusso sempre più numeroso dei fedeli che lo invocavano santo, quindi la costruzione di una bella chiesa con uno splendido chiostro.

Gualtiero l’architetto proveniente da Aversa, aveva ritrovato al suo cospetto l’uso di un braccio “arido” e si era da quel momento prodigato a realizzare quanto di meglio gli consentiva la sua arte: la grande immagine della Madre di Dio dipinta da Gualtiero, nel gesto sublime di allattare il Figlio, il pozzo intorno alla polla d’acqua, i bellissimi capitelli a stampella del chiostro, che ritraevano nel marmo sbalzato le immagini dei terribili guerrieri venuti dal nord per conquistare il Sud dell’Italia.

Poi erano seguite le discussioni coi religiosi venuti a vivere sul monte, i primi dissidi su come gestire le ricchezze che i fedeli copiose ponevano ai suoi piedi, il sofferto addio alla comunità monastica, da quel momento affidata al devoto Alberto, che non sa se avrebbe più incontrato.

Guglielmo dopo aver lasciato Montevergine, la cui chiesa era stata appena consacrata dal vescovo di Avellino, s’era portato al Laceno: si è intorno al 1126. Dopo due anni di sosta al Laceno inizierà a muoversi in mezzo al popolo dei villaggi, dei castelli, delle città del grande Regno del Sud che si va consolidando. Nuove fondazioni prenderanno vita ovunque passerà il Santo, viaggiatore instancabile. Presso le sorgenti dell’Ofanto al Goleto, Guglielmo darà avvio alla costruzione del complesso che porterà nei secoli il suo nome, dove incontrerà la morte il 25 giugno 1142.

Re Ruggiero in persona fu il principale sostenitore e patrono dell’ordine monastico, che utilizzò come arma pacifica quanto efficace per la demolizione sistematica della chiesa greca e dell’islam. A Palermo, capitale del Regno del Sud, a breve distanza dall’antico Palazzo Reale (oggi Palazzo dei Normanni), un’antica chiesa cristiana, poi trasformata in moschea, fu affidata nel 1136 dal Re proprio ai monaci verginiani, gli “eremiti” venuti dall’Irpinia, per essere sistemata e riconsegnata all’antico culto. La chiesa, che avrebbe assunto il nome di San Giovanni degli Eremiti, è realizzata a croce latina divise in campate quadrate su ciascuna delle quali poggia una semisfera. Il presbiterio, terminante in nicchia, è sormontata da una cupola, come quella dei due corpi quadrangolari che la fiancheggiano, di cui quello di sinistra si eleva a campanile. Il chiostro, abbellito da un lussureggiante giardino, è la parte meglio conservata del convento antico, in cui spiccano le colonnine binate con capitelli a foglie d’acanto che reggono archi ogivali a doppia ghiera. Le cinque cupole rosse arabeggianti che svettano sull’edificio rimandano ai lontani monti dell’Irpinia, cuore e origine della grande congregazione di San Guglielmo.

                                                                                                       

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