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Con la cultura si mangia (e si cresce)

14.11.2017, Editoriale di Luciano Arciuolo (Dirigente Scolastico) 

Tratto da “Il Quotidiano del Sud”.

altan-tagli-alla-culturaQuando nel 2010 l’allora Ministro dell’Economia Giulio Tremonti, al tremebondo collega di governo Sandro Bondi, (indimenticato e disastroso Ministro della Cultura, famoso per l’assoluta incapacità di porre un qualche rimedio ai crolli negli scavi di Pompei, oltre che per le poesie dedicate a Berlusconi) che chiedeva più fondi per il suo dicastero disse, con un moto di stizza, che con la cultura non si mangia, espresse un punto di vista molto diffuso e condiviso dagli italiani.

Tremonti ha poi avuto modo di ricredersi, al punto che pochi mesi fa ha pubblicato un libro assieme a Vittorio Sgarbi in cui, sostanzialmente sostiene il contrario. Ma quella idea ha comunque fatto strada, se è vero che nel quinquennio 2010 – 2014 la spesa per cultura, istruzione e formazione in Italia è diminuita di un buon 8%. Così il nostro paese ha destinato, nel 2014, solo il 4% del Prodotto Interno Lordo (il famigerato PIL) per cultura e scuola. La media dei paesi OCSE è del 5,2%. La differenza tra 4% e 5,2% sembra, in fondo, poca roba. Ma significa qualcosa come 22 miliardi di euro, circa 44 mila miliardi delle vecchie lire: una enormità. Tenendo conto che nello stesso periodo la spesa pubblica non è diminuita, si capisce che, semplicemente, lo Stato ha preferito disinvestire dalla cultura, destinando i fondi pubblici verso altri capitoli di bilancio (penso al costosissimo acquisto degli F35, aerei caccia da guerra).

Del resto altre cifre dicono le stesse cose: uno studente italiano costa allo Stato, mediamente, circa il 10% in meno di quanto costa alla media dei paesi OCSE.

Insomma la Scuola italiana si caratterizza positivamente solo per la sua accoglienza e per la sua capacità di integrazione degli studenti meno fortunati. Per tutto il resto è molto indietro, rispetto agli altri paesi. E’ indietro anche nella capacità di indirizzare i giovani verso il lavoro, anche quelli più bravi. Per quanto riguarda questi ultimi, anzi, il danno è doppio: noi li formiamo, dalla scuola dell’infanzia alla specializzazione post-laurea, e i paesi esteri, verso i quali i laureati migliori sono costretti ad emigrare, ne sfruttano la preparazione, l’inventiva, la grande capacità operativa.

 Qualcuno ha calcolato in 14miliardi di euro il danno economico per l’Italia dei cosiddetti cervelli in fuga. 14 miliardi che lo stato ha investito per preparare quei giovani e che vengono utilizzati dalle Università e dai centri di ricerca di altre nazioni, dall’Inghilterra agli Stati Uniti, dove i nostri scienziati sono molto apprezzati.

Insomma, solo in Italia con la cultura non si mangia. All’estero ci mangiano, eccome. E mangiano anche quello che cuciniamo noi italiani.

Ebbene, più o meno un anno fa, Ignazio Visco, riconfermato pochi giorni fa Governatore della Banca d’Italia (sia pure tra grandi polemiche politiche) scriveva un interessante articolo su Repubblica, intitolato, appunto, “Perché con la cultura si può mangiare”.

In quell’intervento Visco partiva dall’analisi dell’economista americano  Edmund Phelps (premio Nobel per l’economia nel 2006) sulle motivazioni profonde del rallentamento delle economie mondiali dell’ultimo decennio, dovuto secondo lui all’affievolirsi del dinamismo di valori quali il bisogno di creare, la propensione ad esplorare, il desiderio di affrontare nuove sfide, la creatività.

Visco ne derivava la necessità di ristabilire l’apertura all’innovazione e la disponibilità a guardare oltre il breve termine, anche e soprattutto nelle scelte di politica economica. Non solo: nella società prossima ventura, caratterizzata da una incidenza sempre più marcata della tecnologia e da una evoluzione sempre più veloce delle conoscenze necessarie per starle dietro, la produttività di chi lavora non sarà più legata a conoscenze acquisite una volta per tutte, quanto piuttosto alla capacità di esercizio del pensiero critico,  alla creatività, all’ attitudine a risolvere problemi, all’ apertura alla collaborazione.

Insomma servirà più cultura, o se si vuole più conoscenza, nella accezione più ampia della parola. E, per questo e in questo senso, sarà necessario superare, una volta per tutte, la vera e propria barriera che separa la cosiddetta cultura “umanistica” da quella tecnico – scientifica. Perché la creatività ed il pensiero critico hanno bisogno di entrambe e su entrambe si fonda la conoscenza.

Scriveva Visco:” … Investire in cultura è la risposta migliore che possiamo dare alle difficoltà di oggi e all’incertezza del futuro, consapevoli che (essa) finirà per ripagarci, con gli interessi. Perché, come scriveva ormai quasi tre secoli fa Benjamin Franklin, il rendimento dell’investimento in conoscenza è più alto di quello di ogni altro investimento.”

                                                                                                       

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