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Le donne nella cultura contadina

27.08.2003, Il libro (da “Il Corriere”)

Presentato a Bagnoli (sabato 24 agosto) il volume di Aniello Russo “Irpinia Magica. Rituali e miti del quotidiano”. Un viaggio tra tradizioni e credenze, testimonianze e aneddoti.

E’ stata l’occasione per riflettere ancora una volta sulla ricchezza del patrimonio legato alla cultura contadina la presentazione del volume di Aniello Russo “Irpinia Magica. Rituali e miti del quotidiano, presso l’aula comunale di Bagnoli, promosso dalla locale Fidapa. A confrontarsi con l’autore il sindaco di Bagnoli Irpino Filippo Nigro, il presidente della Fidapa sezione di Nusco Anna Maria Madaro e la giornalista scrittrice, studiosa di tradizioni popolari Franca Molinaro. A moderare il dibattito Teresa Iarrobino.

Ed è stata proprio Molinaro a sottolineare la sacralità della donna nella cultura contadina, una sacralità che emerge con forza dal volume di Russo «Alla oondizione di emarginazione che ha caratteritzato a lungo l’universo femminile si contrappone il ruolo forte di cui ha goduto la donna nelle famiglie contadine. A lei era affidato ogni momento che scandiva l’esistenza. dalla nascita alla morte, così erano le donne a far nascere i bambini con la figura delle levatrici ed erano le donne ad accompagnarne il trapasso, ad allevare i bambini, a curare e guarire».

A prendere forma nel corso dell’incontro rituali che scandivano le diverse età dell’uomo, dalla fanciullezza alla vecchiaia, attraverso testimonianze di episodi e aneddoti che ricostruiscono credenze contadine. «Al tempo della civiltà contadina, – spiega Amello Russo – i piccoli erano avviati al lavoro fin dalla tenera età. Le femminucce ancora prima: imparavano dalla madre e dalla nonna i lavori domestici, la filatura della lana, la cucitura, il rappezzo; e i loro lavori si svolgevano all’interno delle mura di casa. Se faticava all’esterno, la ragazzina seguiva la madre sul luogo di lavoro. Racconta Emilia, una contadina ottantenne di Montemarano: “A dieci anni mia madre mi portava con lei nel campo di un prete di Castelfranci: io zappavo la terra, sarchiavo le patate, potavo le viti … Andavo scalza pure quando c’era il gelo. Come comprare le scarpe se lavoravo per cinquanta lire al giorno, e un chilo di pasta costava cento lire? A sera, quando tornavo a casa ero così stanca  che lungo la strada non riusciva a tenere gli occhi aperti e mia madre mi sgridava, vedendomi dormire mentre camminavo”».

Dall’infanzia all’adolescenza, se è vero che maschi e femnine non vivevano più in promiscuità, vi erano tuttavia dei momenti in cui gli adolescenti si ritrovavano assieme. Una di queste occasioni capitava al tempo della spannocchiatura, durante la quale si effettuava un veto rituale d’amore. «Si apriva una gara- racconta Russo – tra le ragazze e i ragazzi intenti a spannocchiare il granturco: chi trovava una spiga con i chicchi di color nero-violaceo doveva pagare un pegno. E il pegno era un bacio da dare a tutti quelli dell’altro sesso. E’ illuminante il nome che si dava a Bisaccia al chicco di questo colore, lu zito, lo sposo. Se la pannocchia con questi chicchi capitava in mano a una ragazza ancora libera, avrebbe trovato marito prima della successiva raccolta di granturco. Gli adolescenti cominciavano a mostrare insofferenza nell’attesa di godere i frutti della giovinezza. Sul far della sera, si radunavano nei pressi della fontana pubblica, scherzando tra loro e rivolgendo attenzioni non del tutto costumate alle fanciulle, che andavano con il barile ad attingere l’ acqua ».

Inevitabile il riferimento anche ai sistemi di premonizione, che caratterizzavano l’Irpinia, molteplici e comuni a tutte le contrade: «si interrogava il cuculo, – spiega l’autore si adoperava il setaccio – Ma c’erano pure le zingare che si proponevano come indovine, chiedendo in cambio una scheggia di cacio o un pezzo di lardo. Esse visitavano i nostri paesi e si intrufolavano nelle case col pretesto di leggere il futuro nelle linee del palmo della mano, e intanto trafugavano qualunque cosa cadesse sotto i loro occhi. La gente le temeva quasi quanto i carabinieri, e sbarrava la porta al loro passaggio».

A rivivere nell’incontro anche i rituali di fidanzamento. «Uno era questo … Aspettava che l’amata si recava alla fontana a prendere l’acqua, si avvicinava alle sue spalle, prendeva in mano il tappo del barile e diceva: “Uppulu o assùppulu? Tappo o stappo?” Se il giovane le piaceva, la ragazza rispondeva: “Oppela, uaglio’! E mosero vieni apparla’ co tata!” Se invece la ragazza era impegnata o non gradiva il corteggiatore, rispondeva con la mano sul cuore: “No, no, io sono già tappata!”».

A caratterizzare il matrimonio era molto spesso la fuitina «Numerose erano le ragazze costrette alla fuga con la persona amata, vuoi perché già incinte, vuoi perché i genitori ostacolavano la loro unione. La ragazza che si involava verso l’irreparabile, si esponeva alle reazioni violente dei genitori che avrebbero voluto vederla salire l’altare con l’abito bianco. La reazione della madre alla notizia della fuga della figlia conosceva due fasi.  Nella prima la collera della madre esplodeva violenta; essa seguiva un rituale preciso si scopriva il seno, si inginocchiava davanti a un’immagine sacra, levava in alto le braccia e lacrimando scagliava la maledizione cu lu sangu a l’uocchi: “Puozzi èsse malerétta nsì chi campi! I’ t’aggiu mistu a lu munnu e i’ te levu ra la faccia r’ la terra! – e aggiungeva – Lu primu figliu te l’hanna terà cu li fierri!”. La seconda fase è caratterizzata dalla lamentazione della madre. Tutto era ritualizzato: il pianto, le parole, i gesti. La madre della zita intrecciava le dita delle due mani e, rovesciandole all’esterno, le allontanava dal petto, in un gesto di disperazione. La modulazione era la medesima del canto funebre».

Un percorso dettagliato capace di ricostruire la quotidianità. Dalla visita di una donna a Mamma Santa, veggente di Guardia Lombardi, che riuscì a liberarla dal fantasma del figlio morto in una pentola d’acqua bollente, recitando una formula al racconto di una ragazza di Montemarano che all’età di nove anni accompagnava la mamma a lavorare nella vigna di Castelfranci e si ritirava a casa, senza avere neppure la forza di camminare. Dal corteo delle canestre che scandiva, in ogni paese, i preparativi del matrimonio, con il corredo portato a casa dallo sposo secondo un rigido rituale alla testimonianza della  prima notte di Nusco. O ancora la voce della donna che, dopo aver svolto il suo ruolo di figlia e di madre, non ha paura della morte.

Fino alla testimonianza consegnata dallo stesso Russo, che ha ribadito più volte la necessità di salvaguardare in ogni modo il patrimonio contadino, indispensabile per comprendere il presente: «Ero poco più di un bambino quando ho assitstito al rituale di una janara, una pratica antitempestaria. Nella mano sinistra una zappa, nella destra una falce. Ricordo che la donna sciolse i capelli e cominciò a mormorare una fomula. Le nubi si addensarono ma al momento delle formula vidi come uno squarcio nel cielo. Ero spaventato a morte».

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Le foto della presentazione …

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Il libro

                                                                                                       

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