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La questione irpina (parte prima)

21.01.2016, Articolo di Vincenzo Garofalo (da “Fuori dalla Rete” – Natale 2015, Anno IX, n. 7)

La-questione-Irpina-di-Vinceno-Garofalo“Varia, complessa e, per molti aspetti, non troppo facile a risolversi, esce finalmente dal sonno semisecolare e comincia ad appassionare vivamente la pubblica opinione (…)”, così inizia un articolo su “La Voce del Popolo” del 1907.

Ad inizio secolo, come era accaduto per il Mezzogiorno tutto, nasce un movimento di particolare attenzioni alle “questioni” locali, siano esse del Sud d’Italia, o di particolari aree geografiche circoscritte. Esempio noto è, per citarne uno, il caso della Questione Veneta, piuttosto che il caso della Questione Meridionale. La sensazione d’abbandono, la disillusione, aveva colpito, dopo “nove lustri di malgoverno” (La Voce del Popolo, la Questione Irpina. 1907) al cuore alcuni personaggi dell’antica Irpinia. Insieme, spinti da una voglia di riscatto e dalla consapevolezza che l’unione è più proficua dell’azione singola, si provvide a pubblicare sulle pagine del quotidiano un “fresco articolo (…) dovuto a uno delle più giovani e forti penne dell’Irpinia nostra, del quale i lettori (…) non potranno non riconoscere le profonde e indiscutibili verità“. (La Voce del Popolo, la Questione Irpina. 1907).

La commemorazione per il centenario dell’elevazione di Avellino a capoluogo aveva scosso la popolazione irpina, positivamente, dalla sua “proverbiale inerzia“, tant’è che la provincia era conosciuta come la Beozia d’Italia: l’atavico disinteresse per le questioni locali aveva comportato un allontanamento, dall’attenzione della politica, l’intero territorio irpino. La nascita della provincia, infatti, aveva agito come da sveglia da un “dannoso letargo“.

L’attenzione all’Irpinia, da parte della politica, era tangibile: quotidiani partenopei ne parlavano, e finanche su testate della Capitale appariva la questione. Era forse in atto un progetto di resurrezione dell’Irpinia? L’agricoltura, sofferente da immemore tempo, non riusciva a proporsi come strumento di crescita per la provincia. Troppe braccia erano andate perse, a causa dei movimenti migratori verso l’estero e il nord, così che si propose un ripopolamento della provincia con agricoltori provenienti da altre parti d’Italia. La partecipazione, attraverso incontri e dibattiti di stampa, fu ampia: proprietari terrieri, intellettuali e politici intervennero, soprattutto su il “Mattino”, avanzando soluzioni ed idee.

Proprio il quotidiano da cui abbiamo preso spunto per analizzare il problema della Questione Irpina, però, analizza la questione in modo attento, puntando alle lacune che altri non avevano notato. Basta scorrere l’articolo per capire di cosa parlasse l’autore: perché puntare alla sola resurrezione agricola? Non si poteva puntare a qualcosa di più alto? L’industria e il commercio erano obiettivi tanto lontani? L’idea di un’Irpinia industriale derivava dalla presenza di risorse naturali utili alla produzione di energia. “(…) La trasformazione industriale e commerciale d’Irpinia: ecco l’antico sogno, la grande fissazione di chi scrive queste righe! (…)”. (La Voce del Popolo, la Questione Irpina. 1907).

L’articolista tenta di volgere l’attenzione del lettore su un punto assai importante: le terre irpine erano improduttive poiché abbandonate, mancò, sin dal principio uno spirito creativo non fu impiegato per investire capitali in qualcosa di positivo. A dibattere per primo di ciò fu l’Onorevole De Luca, che propose un’idea innovativa: il futuro della provincia sarebbe stato tutto a favore dei coloni, reduci dalle Americhe, che, riuscendo a racimolare ricchezza, avrebbero acquistato il terreno fino ad allora di proprietà di pochi latifondisti. Allora si che i capitali sarebbero stati investiti!

Il problema, atavico, del Mezzogiorno in generale, dell’Irpinia in particolare, era una non equa distribuzione della ricchezza. Pochi facoltosi, con a disposizione ricchezze utili a una crescita generale dell’economia e della società, mancavano di quello spirito “audace e intraprendente“, che, a costo di un certo rischio (insito nell’attività economica stessa) avrebbe permesso un cambiamento importante. Il turismo, ad esempio, altrove praticato con successo, non fu mai considerato come una possibile soluzione al problema della provincia.

Parole del 1907 spiegano perfettamente la situazione: “Una modestia e una deplorevole sfiducia nelle proprie forze e nelle risorse locali annientano, presso di noi, qualsiasi generosa e ardita iniziativa. E anche volendo, non si sa metter in luce sufficiente, mediante una necessaria e seria pubblicità, tutte quelle particolari bellezze, che costituiscono le attrattive dei forestieri.” (La Voce del Popolo, la Questione Irpina. 1907).

Osservazioni ardite, verrebbe da dire. Luoghi di villeggiatura, divenuti famosi, proponevano ben poco: cieli azzurri e clima mite. Cosa mancava al nostro territorio per imporsi sullo scenario nazionale come meta turistica di successo?

L’Irpinia, terra verde, ricca di panorami mozzafiato, già allora conosciuti, aveva tutte le carte in regola per competere con mete più note. Un territorio verde, lussureggiante, ricco d’acqua pura, paesaggi assai diversi e incantevoli, “paragonabili soltanto a quelli della Svizzera“, per sintetizzare con parole d’epoca. Sull’altro piatto della bilancia, però, cosa mancava? Alberghi, strutture comode, mezzi di comunicazione celeri, moderni e soprattutto economici, ma, pecca più grande di tutte, mancava lo spirito d’iniziativa. Le contrade irpine cos’erano se non plaghe deserte, inapprezzate e sconosciute!

Alcuni aveva individuato il problema dell’ar-etratezza economica irpina proprio nella sua localizzazione geografica. Non avrebbe, invece, potuto crescere, economicamente e socialmente, grazie alla propria posizione? Migliorare e facilitare le comunicazioni, allora carenti non meno d’adesso, avrebbe permesso alla provincia di farsi apprezzare più facilmente e di divenire un “HUB” per la Campania (già allora, si noti, le idee di un’Irpinia nodo delle comunicazioni regionali era piuttosto chiara!).

Inutile puntare il dito, accusando, verso personaggi politici estranei alla realtà locale, la colpa, come ovvio, ma di difficile ammissione, era dei cittadini irpini. “(…) Ce la siamo dormita saporitamente finora, lasciando infruttuose le inesauribile acque del Calore e dell’Ofanto e la lunga vallata del Sabato, ricca di miniere ed esuberante di energie, che potrebbe, senza dubbio, diventare una zona industriale e manifatturiera di prim’ordine (…)”.

Il Prof. Devoto, al congresso di Idrologia e Climatologia del Gennaio 1907, aveva speso belle parole sulle risorse idriche locali: le acque minerali (a scopo termale) erano largamente poco considerate dagli italiani, sempre alla ricerca di salutari cure all’estero e mai a casa propria. Non manca all’analisi di inizio ‘900 l’attenzione al patrimonio storico irpino. “(…) I tesori d’arte antica, disseminati qua e là, per i nostri [d’Irpinia] Comuni, noi [non li] sappiamo sfruttare (…)”. Altrove una piccola statua, pochi ruderi, o anche solo un quadro venivano tanto ben considerati che richiamavano l’attenzione del pubblico, mentre nei comuni irpini la conoscenza del patrimonio storico era così poco diffusa che i paesani stessi ignoravano le ricchezze accanto a loro. Si accennava, già allora, ai resti dell’Acquedotto Sannitico (portava le acque da Serino a Benevento), i resti dell’Acquedotto Romano (portava l’acqua a Pozzuoli, Cuma e Baia), o le chiese di Bagnoli, le ricchezze storiche di Avella e Baiano, i dipinti nel palazzo Tecce di San Potito piuttosto che il castello di Lauro, la chiesa palatina di Montefusco, le chiese di Montefalcione e Paternopoli, il palazzo Orsini e la chiesa in S. Michele di Solofra, il duomo di Lacedonia piuttosto che le “mofete” d’Ansanto, concludendo col ponte romano di Luogosano. L’elenco, ancor oggi stilabile, sarebbe assai più lungo. Montevergine, col suo santuario, cosa avrebbe avuto da invidiare a Cassino? Tante bellezze allora ignote a tanti, stranieri e non, che compivano viaggi immensi per visitare il Bel Paese, ancora oggi, duole constatarlo, in situazione analoga.“(…)

Occorre, dunque, muoversi, farsi conoscere ed apprezzare; occorre rivelare la nostra provincia, della quale non solo agricolo, ma ben anche industriale e commerciale deve essere il risorgimento, perché sia completo, benefice, duraturo (…)”.

Cosa fare? Come agire? Importante sarebbe stato associarsi, collaborare, operare uniti. L’azione, compiuta con decisione e convinzione, avrebbe concesso un’opportunità: trasformare la depressa provincia irpina in ardente regione d’Italia, cui tutti, prima o poi, avrebbero dovuto rivolgere uno sguardo. Era questa, nel 1907, la formula per la resurrezione, economica e civile (nonché culturale e sociale).

                                                                                                       

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