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Le castagne nella cultura contadina

08.10.2012, Articolo di Aniello Russo (da “Il Corriere” del 07.10.2012)

Dice un proverbio irpino: Settembre cu lu sole, uttobre cu li fungi (Se il mese di settembre avrà giornate di sole, in ottobre spunteranno funghi in abbondanza). Ed io aggiungo: ottobre anche con l’uva e con le castagne, che sono i prodotti tipici della nostra terra. In verità, la castagna non è molto esigente, le va bene qualsiasi clima. Ma fino ad agosto. Perché a settembre, l’embrione della castagna che va formandosi nel riccio (l’anema ca se cummènza a furmà int’a lu nginu) teme il gelo, che ne blocca la crescita, e paventa anche le piogge eccessive che provocano la comparsa del verme nella castagna.

La castagna è stata senza dubbio il frutto che ha aiutato l’insediamento in questa terra di popoli come i sanniti, che per lo più erano pastori e allevatori. La castagna, di cui i contadini impararono i metodi di conservazione, garantiva il cibo nei lunghi mesi invernali. Il frutto era il cibo di cui si alimentavano i piccoli e con cui si allevavano i maialini:

Cu castagne e patanieddi
criscìmu figli e purcieddi.

“Per tutto il tempo della raccolta delle castagne, che durava l’intero mese di ottobre, la mattina portavamo a scuola le ballotte, che la mamma cuoceva assieme al pasto per i maiali. In classe, durante le lezioni, tenevamo sempre le mani in tasca per cercare di prendere dalle castagne cotte tutto il calore che ancora emanavano. Le ballotte erano la nostra colazione: quello offriva la natura in autunno! Al suono della campanella dell’uscita noi scolari lasciavamo sul pavimento delle aule e sotto i banchi le bucce delle ballotte. E i bidelli si dannavano per pulire”.

Che la castagna fosse il cibo principale nell’alimentazione dei bambini è ribadito da un altro detto che precisa le attività principali dell’irpino nel corso della sua esistenza, nell’infanzia nella giovinezza e nella vecchiaia:

A lu criatùru re llesse,
a lu giovene la fessa
a lu viecchiu la messa.

(Al maschio nell’infanzia si danno le castagne lesse come cibo, nella gioventù gli tocca fare l’amore, nella vecchiaia non gli resta che sentire messa).

Una sintesi straordinaria che racchiude tutta un’esistenza! Gli abitanti di non pochi paesi della provincia di Avellino vantano un blasone popolare che deriva dalla presenza delle castagne nei loro boschi: castagnàri (Bagnoli, Guardia dei Lombardi, Serino), mangiafrìsili (cioè consumatori di castagne secche: Lioni, Cassano, Montella), culapierti (per raccogliere le castagne si è costretti a stare chinati: Summonte).

L’importanza che assumeva (e che tuttora assume) la castagna nella alimentazione e nella economia della gente d’Irpinia, è testimoniata dalla filastrocca carnevalesca dei mesi. Parla il mese di ottobre:

So’ lu mese r’ re castagne,
e si lu tiempu aiuta,
hai voglia quanta n’arrùni!

(Io sono il mese di ottobre e se il tempo accompagna, hai voglia di raccogliere castagne!).

Già due mese prima della raccolta i contadini proprietari di castagneti, i castagnai, fiutano l’aria per prevedere il clima, augurandosi il sole in agosto, e piogge in ottobre con venti pacati e tiepidi. Il nemico della castagna è il vento di tramontana, lu vientu r’ terra siccu, che con le sue folate gelide blocca la crescita della castagna nel ricco. Ecco un proverbio meteorologico che riguarda i prodotti agricoli più diffusi in Irpinia: il vino, l’olio e la castagna:

Acqua r’aùstu porta uogliu,
castagne e mustu

(Le precipitazioni nel mese di agosto sono utili alle piante di ulivo, di castagno e ai vigneti, favorendo un’abbondante produzione di olio, di castagne e di vino).

I due detti che seguono accompagnano lo sviluppo della castagna, da quando è piccola come un lupino (al principio d’agosto) alla completa maturazione (al principio di ottobre) e al suo consumo accompagnata con un bicchiere di vino nuovo:

A san Pellegrinu la castagna è quant’a nu lupinu.
A san Franciscu re ccastagne cu lu canìstru.
A santu Martinu castagne e bbinu!

(Nel giorno dedicato a san Pellegrino, cioè il due di agosto, la castagna nel riccio è quanto un lupino. A san Francesco, che si festeggia il quattro ottobre, le castagne già riempiono il canestro. A San Martino, che si festeggia l’11 di novembre, si mangiano le castagne e si beve il vino).

Il bene materiale più prezioso nella cultura irpina era la casa. Ma nella scala dei valori subito dopo veniva il castagneto, che offre non solo il frutto fresco e la riserva per l’inverno, ma pure la legna per accendere il camino nelle gelide e nevose giornate del lungo inverno irpino. Recita infatti un altro detto:

Lu purtùsu sott’a lu nasu
te faci vénne castagnìtu e casa,

il buco sotto il naso, cioè la bocca può indurti a vendere il castagneto e la casa. In altri termini: per soddisfare il vizio della gola, c’è chi si riduce anche a vendere la casa, che è il nido della famiglia; e il castagneto che costituisce il sostentamento della stessa.

La castagna nei rituali di medicina popolare

Sia la pianta sia il frutto del castagno erano avvolti da un alone di sacralità. Nell’immaginario collettivo popolare i rami del castagno, per la loro flessuosità, e il riccio per la configurazione che ricorda l’organo sessuale femminile, avevano potere rigenerativo. Ecco la pratica magica della passata, secondo due testimone, uno di Nusco e l’altro di Lioni. L’operatore magico eseguiva il rituale in una notte di luna mancante. Portava nel bosco il ragazzo malato di ernia o colpito da altra menomazione. E lo passava attraverso un arco formato con un ramo tenero di castagno. Erano presenti al rituale soltanto il malato, l’operatore e il padre. Il padre porgeva tre volte il piccolo passandolo all’operatore con la testa davanti. L’arco simulava la vagina attraverso cui il malato veniva rigenerato; ma questa volta venendo al mondo liberato del male di cui soffriva fin dalla nascita. Si riteneva che la castagna avesse pure il potere di tener lontano qualsiasi forma febbrile, compresa l’influenza. Si suggeriva di porre sul comodino accanto al letto, prima di ficcarsi sotto le lenzuola, una sola castagna verde, che aveva la funzione di un amuleto apotropaico. Consumando nella giornata di Sant’Antonio Abate (17 gennaio) le castagne lessate o arrostite, ci si difendeva dall’assalto dei pidocchi. La credenza era ancora viva nelle campagne fino ad alcuni decenni addietro.

Momento corale di vita rurale

La raccolta delle castagne, come la mietitura e la vendemmia, era un momento corale nella nostra vita rurale, uno dei riti di lavoro più antichi che si celebravano nelle nostre campagne. Il padrone con tutta la famiglia e le donne assunte per un mese (perciò erano dette: mesarole) lavoravano insieme nei castagneti chini dall’alba al tramonto, al sole e al vento, raccogliendo il prezioso frutto. E per alleviare la fatica cantavano in coro le antiche canzoni di amore o di dispetto; e spesso si dividevano in due gruppi (giovani da una parte e anziani dall’altro; oppure maschi di qua e femmine di là) e si scambiavano divertenti strofette di scherno, ma senza cattiveria e senza serbare rancore. E insieme consumavano i pasti, come insieme facevano ritorno a casa, tutti infiacchiti dalla fatica. E insieme si godeva dell’abbondanza della raccolta: generosamente il padrone consentiva alle sue lavoranti di portare a casa una grembiulata di castagne da conservare per le caldarroste di Natale. Perché i vecchi di una volta così dicevano: “Quando è tempo di castagne, tutti mangiano le castagne; come quando si ammazza il maiale, e si mangia tutti la carne. Inoltre i contadini, dopo il due novembre, lasciavano i loro fondi a chi non aveva castagneti per permettere loro di farsi una provvista per l’inverno; e queste castagne, per antica tradizione, erano dette “le castagne dei poveri”. C’è un’antica leggenda qui in Irpinia che rivela che all’origine le castagne erano un bene comune; e non c’erano né padroni né garzoni. Sentite.

La leggenda della castagna

Quando comparvero nella nostra Irpinia i primi abitanti ancora non sapevano come nutrirsi. A quei tempi i cristiani si cibavano di quello che la natura offriva e mettevano in bocca quello che trovavano: i funghi, le more, le fragole, che erano i frutti della terra; le mele, le pere, le prugne, che erano i frutti delle piante. Proprio come fanno i bambini. Venne l’autunno e i frutti cominciavano a scarseggiare. La gente del paese cominciò a soffrire per la scarsità di cibo, soprattutto i bambini. Un giorno d’ottobre, un uomo più coraggioso si inoltrò nell’intrico dei boschi in cerca di qualcosa di commestibile. Giunto in una macchia di castagni, notò al suolo i ricci delle castagne e ne raccolse uno. Ma prima di portarlo alla bocca, nello stringerlo nel pugno, si sentì pungere dagli aculei, e lo gettò via. Accanto al fuoco del camino i bambini ascoltavano le storie dai loro nonni, che cercavano di distrarli. Ma di tanto in tanto interrompevano il racconto: “Nonno, ho fame!” E il nonno paziente: “Fiori di nonno, il fuoco è mezzo pane. Presto verrà la primavera e potrete correre nei prati a cogliere i frutti che più vi aggradano”. Ma la fame tormentava i più piccoli. Allora il Signore ebbe pietà dei bambini: con un cenno degli occhi interruppe il cattivo tempo, sicché uomini e bambini poterono uscire dal chiuso delle casupole e disperdersi nelle valli e nei boschi alla ricerca di cibo. E scese sulla terra anche il Signore, confondendosi tra la gente travestito da viandante. Il Viandante seguì i cristiani nei boschi; e una volta giunti in un castagneto, sotto gli occhi di tutti, mostrò come si fa per aprire il riccio e cavarne le castagne. Prese un ramo forcuto con cui tenere fermo il riccio, cavò da una tasca un coltellino e tagliò l’involucro protetto dagli aculei. Ed ecco che vennero fuori tre grosse castagne dalla buccia lucente. Tolse la seconda buccia, ma il frutto era ancora avvolto da una terza buccia, questa sottile come un velo. Liberata anche da questa buccia, porse la castagna a un ragazzo che se la portò in bocca e la gustò tanto: “Ooh!” – esclamò. “Facciamo pure noi come ha fatto lo straniero” suggerì una donna. Prima di andare via, il Viandante indicò anche il modo per conservare le castagne fino a primavera inoltrata, interrandole nella stessa terra di castagno. Infine, perché la castagna non venisse a noia mangiandola, in quanto unica risorsa del lungo inverno, insegnò pure i tanti modi con cui poteva essere cotta.

                                                                                                       

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