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Corrispondenza estate 2014 con Nello Parenti (seconda parte)

18.11.2014, Il racconto (di Alfonso Nigro)

2  –  LI PATRI NUOSTI

Caro Nello, iniziano finalmente le mie vacanze a Praia a Mare, dove spero di restare fino alla fine del mese. Perché fino ad oggi, non è stato proprio un bel dire, tra cattivo tempo, indisposizione fisica, partecipazione prima ad un matrimonio e poi al funerale di un mio cognato, sempre a Napoli, e da ultimo la notizia, appresa su FB, della scomparsa improvvisa di un mio amico e compagno di studi (l’eminentissimo Prof. Stefano D’Anna, autore tra l’altro del best-seller <The School for Gods>, da leggere assolutamente!) che mi ha letteralmente scioccato. Ma torniamo a noi.

Nessuno meglio di me può comprendere la tua ansia di conoscere fatti <inediti> e notizie sulla vita di tuo padre: è accaduto anche a me.  In realtà sentiamo troppo, e spesso anche con dolore, la mancanza dei nostri genitori e ci rammarichiamo di non esserceli goduti abbastanza quando erano ancora in vita. Ci credevamo eterni. E oggi, che non ci sono più, espiamo  questa nostra colpa, cercando di farli rivivere con i nostri ricordi, anche <prendendo a prestito> i ricordi di chiunque che, per qualsiasi motivo, li abbia conosciuti.

Il tuo desiderio mi offre l’occasione di ricordare anche mio padre e perciò ti voglio ringraziare in anticipo per la pazienza che avrai nel leggermi.

Senza mio padre, oggi, io non sarei qui con te o quello che sono, poca cosa d’accordo, ma senz’altro meglio di un seppur bravo scarparieddu o cusutoru re Vagnulu.

Mi è sempre vivo il ricordo re tatillu miu ca arreteratesu ra la fatica a la muntagna, tuttu sculuruzzato, roppu mangiatu,nvece re i’ cu l’amici addù Nucciamanza arretu a lu vavutonu dedicava la sera a me, suo primogenito. M’azzezzava sulle sue cosce, dure e ossute, e m’ mittìa miezz’a re ghierete, lu murzonu re labbusu, c’avìa circatu int’a lu tarraturieddu, raccomandandomi di tenerlo stretto, poi prendeva la mia mano nella sua, e la guidava nella vergatura di aste e bastoni, cerchi, cerchietti e lettere dell’alfabeto, su un quaderno  con la copertina nera a pelle di serpente e le pagine dal profilo rosso.

E’ passato tanto tempo ma mi rimane ancora la sensazione di sentire il calore del suo alito sul mio collo e la forza della sua mano, rude, callosa e chiena re serchie. Non avevo ancora compiuto cinque anni  e più di un anno dopo,  sarei andato a la scola a Santu Roccu.

E come posso scordare quella sera d’inverno, strittu cu mamma vicinu a lu fuculinu re casa a la Ternetà (Via Bonelli oltre la Vadduvana), quando rientrando a casa, trasse da sotto la sua mantellina color verde marcio, modello Grande Guerra, e mi porse, una vecchia copia della <Domenica del Corriere>, con la copertina a colori illustrata da W. Molino, raffigurante Gino Bartali vincitore del Tour de France 1948. Trascorsi la serata e parte della notte a sfogliare quel giornale e alla fine me lo portai a letto, lo sistemai sotto il cuscino e svegliatomi al mattino presto continuai nella sua visione.

Alcuni giorni dopo mi portò nu giurnalettu, il mio primo fumetto a striscia, <Forza John>, che raccontava le avventure di un giovane biondo aviere americano, emule delle acrobazie aviatorie delle Frecce Tricolori italiane. Venne poi la lettura della <Tribuna Illustrata> e di tutti i giornali che mio padre riusciva a procurarsi da Peppu lu giurnalaiu ‘nnanzi a lu vavutonu, dopo che questi ne aveva tolto  la testata che tratteneva per la resa dei giornali invenduti.

Questo era mio padre che alunno di Rodolfo Cione riuscì, unico del parentado, a conseguire la licenza elementare, cosa che a quei tempi non era di poco conto, e che gli permise di fregiarsi dei gradi di caporalmaggiore dell’aeronautica militare impegnata nell’Africa del Nord durante la seconda guerra mondiale.

Ma dopo l’8 settembre 1943, ansioso di riunirsi alla giovane moglie e al suo primogenito che non aveva ancora conosciuto, abbandonò la sua compagnia che si trovava  nel campo di aviazione del Littorio, nei pressi di Roma, e se ne tornò a Bagnoli, pur sapendo di rinunziare, con il regolare congedo militare, alla certa promozione a sergente per meriti di servizio.

Ciò premesso, i miei ricordi di tuo padre risalgono al periodo in cui frequentavo le scuole elementari a Santu Roccu. Quando nel 1949 io ero in prima, classe mista, tuo padre insegnava ad una classe di tutti maschi, quasi certamente di terza.  La sua aula si trovava nella parte centrale del primo tratto del corridoio a sinistra, in cima alle scale che portavano all’unico piano di quell’edificio scolastico, talché ogni mattina per raggiungere la mia aula in fondo al secondo tratto del corridoio, passavo davanti alla sua aula:  la porta aperta, potevo vederlo già assiso in cattedra, nel riverente silenzio della sua scolaresca, pronto a dare inizio alla lezione quotidiana. Mentre nelle altre aule che si affacciavano nello stesso corridoio, gli alunni approfittando del consuetudinario ritardo dei loro insegnanti, saltavano sui banchi, si rincorrevano e riempivano dei loro schiamazzi l’intero piano.

Nella mia classe erano presenti dei ripetenti, ex alunni di tuo padre, i quali nonostante tutto, nutrivano il massimo rispetto per tuo padre, dovuto probabilmente al metodo di insegnamento da lui adottato, così diverso, ad es., da quello della mia insegnante Elisa Varricchio,  fin troppo severa, che faceva ricorso per i neghittosi (meglio i cicciuni) alla mazza Peppiniellu o alla bacchetta Matalena.

Tuo padre, evidentemente, riusciva con le buone ad ottenere dai suoi alunni quello che altri insegnanti non riuscivano ad ottenere nemmeno con le cattive, privilegiando oltre l’aspetto didattico del suo insegnamento anche quello ludico, centralizzando nel suo metodo, e senza scomodare Pestalozzi, Frobel, Montessori e altri pedagoghi, la figura dell’alunno, secondo un’etica professionale sconosciuta a molti suoi colleghi.

Oltre a tuo padre e alla Signorina Elisa Varricchio, ricordo chiaramente molti insegnanti di quegli anni, di entrambi i generi, tra i quali Consalvi, Ciasca, i fratelli Meloro, le signore Voce, Ianora, Lepre e altri.

Ti dico queste cose non per compiacerti, ma perché ricordo benissimo l’insufficienza di molti insegnanti di Bagnoli e, in particolare, l’egocentrismo e la boria del Consalvi che, non so perché, mi stava proprio antipatico, forse perché di Lacedonia. Erano dei semplici insegnanti che non potevano mai assurgere al ruolo di <maestro> o di educatore. Con tutto il rispetto che avevo per la mia insegnante, colpevole, ai miei occhi, solo di essere donna, provavo invidia per i ragazzi che avevano come insegnante un uomo e, soprattutto, avevano tuo padre come <maestro>.

Con l’avvento della bella stagione, tuo padre era solito accompagnare i suoi alunni  int’a li castagniti re li Crisci, ‘mpieri a lu sprufunnu, dove in uno spiazzo nel terreno rosso e polveroso tra gli alberi c’era un rudimentale campo di calcio, che una volta era servito come accampamento per le truppe che venivano a Bagnoli per le manovre, e che noi ragazzi, quando venne costruito il campo sportivo Vittorio Gatti, continuavamo a chiamare lu campu vecchiu.

Mi pare di vederli tutti quei compagni, felici, in riga per due, attraversare la chiazza, Via Abiosi alberata,  lu pontu re lu lavaturu, e sentirli cantare: sul cappello, sul cappello che noi portiamo c’è una lunga c’è una lunga penna nera che a noi sembra a noi sembra una bandiera su per i monti su per i monti a guerreggiare oilì oilà. Evviva evviva il reggimento evviva evviva il corpo degli alpini.

E li ho rivisti quei ragazzi, in una vecchia foto, una di quelle foto con le quali tuo padre, ogni anno, soleva suggellare la fine dell’anno scolastico: compìti e sorridenti facevano corona al loro maestro,  serio ma con  un malcelato orgoglio per i suoi allievi.

Per anni ho cercato una foto della mia classe con la mia insegnante, inutilmente, poiché la mia insegnante, una virago, peraltro bravissima, disdegnava qualsiasi pratica e attività che esulavano dalla didattica, strictu sensu, all’epoca dominante. Dedicava, infatti, tutto il suo tempo  extrascolastico alla cura dei  genitori avanti negli anni ed ammalati, cosa che la costringeva ad assentarsi per periodi talvolta anche lunghi,  soprattutto nel periodo invernale, e che alla fine non le permise nemmeno di sposarsi.

Veniva sostituita da un insegnante, tale Granese forse di nome Luigi, anche del quale ho un vivissimo ricordo. Ogni mattina, puntuale, veniva da Montella, con il bello o cattivo tempo, in sella ad una vecchia bicicletta, che parcheggiava in fondo all’androne della scuola, si toglieva i guanti, staccava le mollette per il bucato che fermavano i pantaloni alle caviglie, si rassettava il vestito, si aggiustava i capelli e si presentava in aula.

Era giovane, magro, di incarnato scuro, capelli neri lucidi lisci tirati indietro e separati in mezzo da una riga, uno sguardo mite, bravissimo e fedele al metodo dì insegnamento della Varricchio, ad eccezione di peppiniellu e di  matalena.  Tutti gli volevamo bene. Alla lavagna, mentre scriveva con la destra, manteneva in tasca la mano sinistra per celare una deformità alle ultime dita. Entrai immediatamente in sintonia con lui ed ogni volta, alla fine della sua supplenza, grandissimo era il mio dispiacere nel vederlo andar via.

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3  –  LI MAISTRI RE VAGNULU

Carissimo, la tua interlocuzione mi ha costretto a rileggere la mia e-mail  dei giorni scorsi. Per quanto concerne il mio giudizio su Consalvi forse sono stato sommario e frettoloso; sarà stato senz’altro bravo come tu dici, e come dirà, penso, anche Gennaro Cucciniello, a ragione suo alunno prediletto, ma per come la intendo io, rimaneva sempre un semplice <insegnante> che è cosa diversa da <maestro>.

Maestro, nell’accezione nobile del termine sta ad indicare una persona dotata di grande spessore spirituale, il c.d. <maestro di vita>, e non ha niente a che vedere con il termine maestro usato dai bambini nelle scuole elementari per chiamare il loro insegnante. Perciò, caro Nello, bisogna mettersi d’accordo sul significato delle parole <insegnante> e <maestro>.

L’explicatio terminorum ci dice che <maestro> deriva dal latino <magister>, da magis che vuol dire di più, perciò maestro è <chi ne sa di più>. Ho letto da qualche parte e condivido pienamente che <maestro> è qualcuno che insegna ciò che non si trova nei libri ed indica una strada che conosce attraverso la sua stessa esperienza e lo fa con <eros> che è insieme desiderio, piacere e amore.

E ancora, vero maestro è chi sa instaurare con l’alunno un rapporto relazionale  che lo porta a porsi come valido modello di riferimento. Il maestro quindi deve avere un ideale di vita e produrre nell’alunno il desiderio di condividerlo, attraverso l’insegnamento e l’esempio; egli deve solo condurre per mano l’allievo sui sentieri della vita e indirizzarlo  verso la conoscenza, senza coercizione o imposizione.

Ebbene, secondo te, quali tra gli insegnanti di Bagnoli contemporanei di tuo padre, avevano questi valori o corrispondevano a questo modello di <maestro>? Tutti, bene o male, svolgevano, come suol dirsi,  il loro bravo compitino per il quale erano pagati, ma quasi nessuno assurgeva al ruolo di <maestro>.

C’era l’insegnante-impiegato che aspettava, come una liberazione la campanella per scappare via dalla scuola; c’era l’insegnante-politico che aveva come attività principale la cura del <giardinetto dei voti> per i vari  Scoca, Sullo, ecc.; c’era l’insegnante-intellettuale che si riteneva tale per il solo fatto di aver conseguito un diploma alle scuole magistrali; c’era l’insegnante-classista che si riteneva far parte di una casta, e perciò si intratteneva a far circolo in piazza, esclusivamente con le persone che riteneva suoi pari e ammetteva al suo cospetto solo qualche notabile del paese.

A te il compito, come in quella rubrica della <Settimana Enigmistica>, di individuare il soggetto ed abbinarlo ad una di queste categorie.

Fortunatamente c’era anche chi della scuola ne aveva fatta una religione, una missione,  una ragione di vita e tra questi c’era senz’altro tuo padre, per i motivi che dirò appresso.

E a questo punto ti riconosco il diritto di indignarti per la suspense in cui continuo a tenerti. Ti chiedo scusa, sono in vacanza, mi annoio, non so cosa fare se non leggere e scrivere, anche sciogliendomi nel brodo dei mie ricordi, cosa che mi piace da morire.

Un momento!!!!!, soltanto adesso, dallo scrigno dei miei ricordi, saltano fuori  due personaggi che vanno a collocarsi in un posto a parte della galleria (o museo delle cere) degli insegnanti bagnolesi: i sigg. Buccino (di cui non ricordo il nome) e Ciletti (Domenico se non sbaglio).

Il primo, abitava nel secondo tratto di Via Ronca, me lo ricordo come persona davvero perbene, molto riservato, un vero signore, coi baffetti, rotondetto, più o meno della mia altezza, che attraversava la piazza per recarsi a scuola o a messa la domenica, sempre sottobraccio, quasi appeso, alla sua signora, pure essa insegnante, imponente e molto in carne che pareva uscita da un quadro di Botero.

Il secondo, abitava int’a la selice, robusto, fasciato nel suo abito in doppiopetto di buona fattura, camicia bianca, cravatta, lucide scarpe nere. Me lo ricordo educato, gentile anche se un po’ affettato, uomo di grande sapere che divenne in seguito direttore didattico.

A proposito di quest’ultimo devo riportare un aneddoto che mi vide coprotagonista e che fornisce una rappresentazione abbastanza fedele del livello qualitativo della classe docente bagnolese dell’epoca.

Ultimata la scuola di avviamento professionale a Santu Roccu, per poter accedere alle scuole superiori, che non fossero le scuole tecnico-industriali di Benevento, dovevo obbligatoriamente conseguire la licenza di scuola media. Nel piano di studi di allora, avevo la possibilità, dopo il conseguimento della licenza a Santu Roccu a giugno, di presentarmi come privatista a settembre presso la scuola media di Lioni, per sostenere l’esame in tutte le materie, compreso ovviamente il latino.

Occorreva pertanto prepararmi anche in quest’ultima materia, a me assolutamente sconosciuta. All’epoca a Bagnoli le uniche persone che conoscevano il latino erano il Ciletti int’a la selice e il prof. Reppucci a re case pupulare. Il prof. Reppucci nella sua qualità di docente nella sede dove dovevo sostenere l’esame, per regolamento scolastico, non poteva prepararmi.

Fu perciò giocoforza rivolgersi al Ciletti, grazie alla mediazione di mia nonna, sua vicina di casa, che comparirà spesso in questa mia narrazione. Il <luminare> volle in via preliminare sottopormi ad un esame per verificare il mio grado di preparazione scolastica, giustificando la cosa, per come ebbe a dire testualmente a mia nonna: <Sai comare Angiolina con la mia reputazione, non posso correre il rischio di fare una brutta figura a causa di tuo nipote, nel caso non superasse l’esame del latino>.

Il responso che sortì da quello esame fu lapidario e dolorosissimo, soprattutto per i miei genitori: <Mi dispiace comare Angiolina, non posso, lo studio non è cosa per questo ragazzo, è meglio che impari un mestiere>.

Mi venne allora in soccorso il prof. Reppucci, che suo malgrado, a causa del poco tempo a disposizione, non riuscì a darmi la necessaria preparazione per superare l’esame. Infatti a settembre superai tutte le materie tranne il latino. L’anno seguente potei iscrivermi alla terza media a Lioni, e fui promosso a giugno a pieni voti. In buona sostanza persi un anno.

Molti anni dopo, trovatomi a Bagnoli, feci visita alla mia nonna, vecchia e malandata, che desiderava conoscere mia moglie <napoletana>. Uscendo da Vico d’Aulisio, fui affiancato dal Ciletti ca scinneva p’ la selice. <Buongiorno professore>, feci io, <buon giorno, buon giorno>, rispose lui e mi guardò curioso. <Sono il nipote re Angiolina la pucurara che abita qua>, <ah, si, la comare Angiolina!>, <vi ricordate, professore, tanto tempo fa venni a casa vostra, volevo prendere da voi lezioni di latino>, <sì! sì! adesso mi ricordo qualcosa del genere>, <allora ricorderete anche che me lo sconsigliaste, diceste perché inidoneo allo studio>.

Il professore si rabbuiò, ricordava benissimo, ma finse lo stesso di non ricordare.  Allora, impietoso, aggiunsi: <sapete, poi mi sono diplomato e persino laureato>. L’esimio professore scappò via, vergognoso, senza salutare. Mia moglie presente, mi redarguì: <Sei stato proprio cattivo!>. In fondo a Via D’Aulisio, il professore Cilettisi volse indietro e mi guardò con stizza.

(continua)

                                                                                                       

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