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Il ragazzo che salva i boschi del tartufo

02.10.2016, Articolo di Elena Tebano (da “Il Corriere della Sera“)

Lanciato un crowdfunding: «Così rilanceremo sei aree delle Langhe». I fondi raccolti serviranno a piantare querce, pioppi, salici, tigli, e altri alberi tartufigeni, pulire il sottobosco, canalizzare le acque.

langhe-carlo-marenda-cani-da-tartufoDue anni fa Carlo Marenda ha ricevuto un dono e un compito da un uomo che stava morendo. Quell’uomo si chiamava Giuseppe Giamesio, per tutti «Notu», ed era un trifulau anziano e solitario, ultimo discendente di una famiglia di cercatori di tartufi delle Langhe.

Si erano incrociati per caso una notte di quattro anni prima nei boschi intorno ad Alba, l’entusiasmo del giovane aveva in qualche modo incrinato la diffidenza del vecchio e da quell’incontro fortuito era nata un’amicizia che ha aperto a Carlo, oggi 34enne, i segreti del re dei funghi. Ma soprattutto gli ha lasciato un’eredità che protegge con cura: Emy e Buk, i cani da ricerca di Notu, e il compito di salvare le tartufaie delle Langhe. «Tu sei giovane — gli ha detto Notu — e sai come farti ascoltare: fai qualcosa per i nostri boschi».

La piattaforma online

Oggi quell’esortazione ha preso la forma di un crowdfunding sulla piattaforma breathetruffle.fieradeltartufo.org: l’idea è raccogliere online 50 mila euro per ripristinare sei aree di produzione del fungo. Iniziata il 21 settembre, verrà presentata alla Fiera del tartufo bianco che si apre ad Alba l’8 ottobre e si concluderà a fine anno: ha già ottenuto diecimila euro. Carlo ha collaborato a lanciarlo insieme al Centro nazionale studi del tartufo, che coordina il progetto, all’Ente fiera internazionale del Tartufo bianco d’Alba e all’Unione delle associazioni Trifulau piemontesi.
«Giamesio me lo diceva sempre: siamo bravissimi a vendere i tartufi — racconta Marenda — ma non ci prendiamo cura dell’ambiente e così finiremo per non trovarne più». In 25 anni le aree tartufigene sono diminuite del 30%: in parte perché i boschi sono stati tagliati per far posto a vigneti e noccioleti, in parte per l’aumento delle temperature e l’inquinamento delle acque, in parte perché i cosiddetti «spazi marginali» sono stati abbandonati. «I tartufi bianchi non sono coltivabili, dobbiamo far funzionare l’ambiente che li produce — spiega Mauro Carbone, 46 anni, che dirige il Centro nazionale studi del tartufo —. Si tratta quasi sempre di terreni al di fuori degli spazi produttivi. In passato i contadini li curavano di più, anche perché semplicemente ci portavano le capre che li tenevano puliti. Negli anni si è persa questa attenzione. Per noi il crowdfunding ha un valore pratico, trovare le risorse per recuperarli, ma anche “politico”: vorremmo che tutto il territorio se ne prendesse la responsabilità perché tutti beneficiamo del valore che il tartufo dà alle Langhe, a cominciare dal turismo».

Le zone da far rinascere

Le sei aree da salvare sono state scelte con l’aiuto delle associazioni dei cercatori, che aiuteranno anche a sistemarle. Ognuna ha un’estensione tra i 1.500 e i duemila metri quadri e si trovano ad Alba, Roddi, Canale, Mondovì, Monforte e Rocca D’Arazzo. «Ci pianteremo querce, pioppi, salici, tigli, e altri alberi tartufigeni — dice Giancarlo Bressano, 56 anni, dell’Unione delle Associazioni Trifulau Piemontesi —, toglieremo le piante infestanti “aliene” come l’edera che non fanno respirare il sottobosco, canalizzeremo le acque».

È quella cura dell’ambiente che per Carlo Marenda è inseparabile dalla vocazione del trifulau. «Me l’ha insegnato Giamesio: questo non è un mestiere, ma una passione. Io di lavoro faccio il project manager: tutti i problemi che mi porto dall’ufficio li risolvo quando sono in cerca di tartufi. Basta l’odore dei boschi di notte e l’emozione del cane che scava e ogni volta non sai cosa troverà».

                                                                                                       

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